di
Simone Giovine
(un nostro ex studente)
al
TORINO FILM FESTIVAL!!!!
Abbiamo apprezzato molto. Grande, Simone!!!
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Abbiamo apprezzato molto. Grande, Simone!!!
http://azionedelpopolo.blogspot.com/2008/11/amici-di-klasse.html





Mirko Giangrasso/ Costantino Trogu/ Simonetta Cannata/ Ludmilla Colla (Liceo Giusti). Gli studenti, dopo il Symposium, vanno a vedere come a Palazzo Nuovo procede l'occupazione e posano per Quintiliano in queste foto








di nascita della RAF (Rote Armee Fraktion) e avvia la clandestinità della Meinhof. Elaborato il manifesto programmatico del gruppo armato, la Meinhof segue i compagni nei campi militari palestinesi, dove verranno addestrati alle armi e alla guerriglia urbana. Baader, Meinhof e Gudrun, rientrati in patria, rapinano le banche e compiono attentati dinamitardi e omicidi per abbattere il capitalismo e lo “Stato maiale”. Inaugurano in questo modo dieci anni di piombo e sangue che li condurranno dritti all’inferno, condannandoli all’isolationsfolter e al suicidio collettivo nella divisione di massima sicurezza di Stammheim. Dietro di loro resteranno soltanto l’ottusità dogmatica e i troppi caduti incolpevoli.È incredibile come due film distanti anni luce per concezione di linguaggio e per intenzioni artistiche, come La banda Baader Meinhof di Uli Edel e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, attraversino lo stesso territorio (la ribellione collettiva delle lotte sociali confluita e seppellita definitivamente dalla lotta armata) legati da innumerevoli interferenze e da sorprendenti contiguità. Concepiti in una libertà di ispirazione completa e disinteressata a dimostrare una tesi, le due opere si muovono dentro il sogno o dentro l’action a partire dai dati di realtà, dalla cronaca e dalle testimonianze di eventi cruciali che hanno generato infinite storie e mitologie. È evidente che combinati i due aspetti finiscano col rimandare e alludere a questioni politiche ancora brucianti, generando nello spettatore rimproveri o encomi secondo le differenti sensibilità chiamate in causa dai film. Innestando immagini documentarie nel fluire di un racconto di finzione, Edel, come Bellocchio, non vuole tanto restituire all’epoca la sua verità in termini di “costume” ad uso della verosimiglianza dell’assunto, quanto creare il contrappunto della Storia con cui finiscono per interagire i personaggi in una sorta di montaggio delle attrazioni fra gli eccidi legittimati dai governi (Vietnam, Cambogia, Palestina) e le esecuzioni dell’uomo politico (o economico), segnalando l’equivalenza fra gli atti criminali statali e quelli dei combattenti della RAF. Chi ha accusato Edel di aver fallito l’obiettivo dichiarato di smontare il mito della RAF o di essersi magari soltanto limitato a questo, non ha intuito l’insistenza su una prospettiva altra, più profondamente umana e lucida. Non ha avvertito il dolore costante che attraversa il film e che pesa sulle spalle dei suoi straordinari interpreti, sulla morte “per fame” di Holger Meins e sull’epilogo, l’omicidio a sangue freddo dell’industriale Hanns Martin Schleyer eseguito dalla “seconda generazione”.In quelle due immagini c’è l’impatto dell’emozione, il dolore per la perdita di una vita, il rimpianto per tutto quello che avrebbe potuto essere e non è stato, per il funerale dell’essere umano lasciato senza consolazione in un bosco o nel corridoio di un penitenziario. La banda Baader Mainhof ci rammenta che se gli anni Sessanta furono quelli del rinnovamento e dei movimenti, gli anni Settanta furono quelli del dolore e del rimpianto. Furono la strana normalità di tre ragazzi chiusi in casa e scesi in strada per godere della libertà come violenza, saltando da una finestra in un vuoto allucinatorio, nell’utopia della distruzione e del suo potere salvifico. Nella velocità dell’action Edel coglie e abita fino in fondo la dimensione sospesa della decennale esperienza terrorista, ostaggio del proprio delirio. Se la notte di Bellocchio riscopriva il (buon)giorno, quella di Edel non sa sognare albe né può offrire fughe immaginarie ai prigionieri di questa tragedia. 

o l'idea? Scherzi a parte, vi aspettiamo!
Vicky e Cristina sono buone amiche anche se hanno visioni completamente differenti dell'amore. Vicky è fedele all'uomo che sta per sposare e ancorata ai propri principi. Cristina invece è disinibita e continuamente alla ricerca di una passione amorosa che la sconvolga. Vicky riceve da due amici di famiglia l'offerta di trascorrere una vacanza in casa loro a Barcellona durante l'estate. La ragazza pensa cosi' di poter approfondire la propria conoscenza della cultura catalana sulla quale sta lavorando per un master. Propone a Cristina di accompagnarla, così forse potrà superare meglio il trauma di una storia finita di recente. Una sera, in una galleria d'arte, Cristina incrocia lo sguardo di un uomo estremamente attraente. Si tratta del pittore Juan Antonio, finito di recente su giornali e televisione per un furibondo litigio con la moglie Maria Elena nel corso del quale uno dei due ha cercato di accoltellare l'altro. Le due ragazze lo ritroveranno nel locale in cui cenano. Anzi, sarà lui ad avvicinarsi al loro tavolo con una proposta molto chiara: partire subito con il suo aereo privato per recarsi in un hotel ad Oviedo dove potranno visitare il luogo, apprezzarne tradizioni e cultura (anche culinaria) e fare entrambe l'amore con lui. Se Cristina non ha alcun ripensamento nell'accettare la proposta, le regole che Vicky si è imposta la spingono a rifiutare in modo seccato. Cristina l'avrà vinta ma l'amica vuole avere la certezza di camere separate e ottiene rassicurazioni in proposito. Dopo una giornata trascorsa con una prima visita della città, nel corso della quale Juan Antonio dichiara l'amore che ancora prova per la moglie benché sia consapevole della loro impossibilità a convivere, giunge finalmente la notte con l'invito più intrigante. Vicky torna a respingere l'offerta mentre Cristina accetta. Ma…Se potete non fatevi raccontare (o non leggete) nulla su come prosegue la vicenda. Finireste con il togliervi il piacere della scoperta di uno dei più riusciti ed ironici film dell'ultimo Allen. Perché è vero che Woody ha dei temi e delle scelte narrative su cui periodicamente ritorna (per questo i detrattori lo accusano di ripetitività) ma quando, come in questa occasione, sa farlo con un approccio totalmente nuovo allora è davvero festa in sala. Perché questa volta la scelta dell'Io narrante è funzionale al modo con cui vengono guardati (e presentati) i personaggi. Osservate, a titolo di esempio, l'entrata in scena di Juan Antonio: Javier Bardem è straordinario nel caratterizzare, già da quella inquadratura, il suo personaggio. Allen torna a riflettere sulla natura di quello che chiamiamo amore registrando gli spostamenti del cuore che vanno spesso al di là di ciò che ragione, tradizione, valori acquisiti ma mai del tutto interiorizzati, sembrerebbero imporre. Ecco allora che l'impostazione dei caratteri di Vicky e Cristina diviene da subito funzionale alla creazione di un'attesa. Resteranno salde nelle loro posizioni? In che misura potrebbero mutare atteggiamento? Quando dall'altra parte ci sono un Bardem che riempie lo schermo per la gioia di signore e signorine pronte a partire per Oviedo senza remore e una Penelope Cruz forse altrettanto efficace solo nelle mani di Pedro Almodovar, il gioco si fa ancor più interessante. Anche perchè Woody ha abbattuto un altro dei suoi tabù. Se finora solo rarissimamente aveva girato in piena estate (fatti salvi Una commedia sexy in una notte di mezza estate, le cui riprese avevano pero' avuto luogo a poche decine di chilometri da Manhattan, e alcune scene di Tutti dicono I Love You) ora è la luminosa Barcellona ad attrarre il suo sguardo. Si sarà senz'altro trattato di esigenze produttive (come era accaduto per la peraltro nuvolosa e quindi rassicurante Londra). Fatto sta che il calore della città catalana (e della sorprendente Oviedo) si trasmette al film offrendogli un'ulteriore sensazione di novità. !Felicitaciones Woody!
stessa, era un atto violento, di ribellione, un prendersi spazi che non erano nostri. «Contro» il mondo degli adulti. E invece adesso l’occupazione si fa con la mamma. Succede un po’ ovunque, genitori e insegnanti fianco a fianco ai ragazzi nei cortei, nei sit in, nelle aule. Portano vivande, tengono lezioni, partecipano agli incontri, vengono a prendere i ragazzi sussurrando complici: «Hai sentito? Hanno firmato il decreto». Nel liceo di mia figlia, l’Alfieri di Torino, il preside Riccardo Gallarà ha dormito ieri insieme agli studenti. «Mi sono portato il plaid da casa - dice con un sorriso sornione - sa, sono il capo, loro si sentono più sicuri se ci sono io». «Sono andato a occupare la scuola con mio figlio - ha scritto Sandro Veronesi, come niente fosse - sono proprio dei bravi ragazzi, preparati, intelligenti». Con padri e madri, quelli sì, che «occupano» tutti i posti disponibili, persino nei cortei. «Mamma ma tu le facevi le occupazioni ai tuoi tempi?». No Marianna, io sono di una generazione di mezzo, troppo giovane per il ‘77 e troppo vecchia per la Pantera. Vita da eterni mediani, liceo e università negli Anni ‘80, in tempo per ascoltare i racconti mitici dei fratelli maggiori su striscioni e collettivi, e per vedere sotto i nostri occhi i fratelli minori trasformarsi in paninari. Sono cose che segnano: non è un caso se è la generazione meno rappresentata in politica, che però fa il pieno tra i conduttori tv. Eccoli lì, i miei fratelli maggiori, questa sera nel tuo liceo, con che gioia respirano di nuovo l’odore sudato della giovinezza, fianco a fianco con i figli. Eccoli che ritrovano il grande sogno di combattere tutti insieme per una cosa più grande, contro un nemico che oggi si chiama Gelmini e ha avuto tanti nomi: «Oggi tra genitori e figli c’è un’alleanza - dice Marino Sinibaldi, esperto di movimenti giovanili - la nostra invece era una guerra tra generazioni. Il rischio? Che i ragazzi siano sopraffatti, non riescano a esprimere quella cultura evolutiva capace, come diceva Bob Dylan, di spiazzare gli adulti». Eppure questi ragazzi non sembrano sopraff
atti. Maria Lia Malandrino ha lo sguardo sveglissimo, una massa di ricci e la striscia «No Gelmini» come cintura. Suo padre sta parlando in assemblea, è professore universitario e genitore di occupanti come i colleghi Gustavo Zagrebelsky e Renzo Levi. La mamma ascolta in platea. Non ti senti in imbarazzo, chiedo, pensando a cosa avrebbe fatto Mario Capanna in una situazione analoga. «No, perché? Lui non vuole mica che io dica che è mio padre». Lui non vuole, mica lei. Il mondo davvero è cambiato. «Con mio figlio si litiga - ammette il professor Levi - in compenso i miei allievi all’università sono venuti timidamente a chiedermi: professore andiamo a occupare, vuole venire con noi?» Arriva Filippo, rappresentante di istituto: «Non ce l’abbiamo mica con gli adulti - mi spiega paziente, come se fossi un po’ tarda - lo sappiamo bene che ci vuole un ricambio generazionale, che in Italia nessuno molla la poltrona. Ma ci serve la vostra esperienza, lottiamo per studiare meglio, abbiamo bisogno di imparare, che senso avrebbe saltare le lezioni?». Una professoressa sorride quasi incredula: «I miei allievi mi hanno ch
iesto: “Lei sarebbe disposta a farci lezione al pomeriggio, alla sera?” Pensavo volessero commentare i giornali, la tv, che so. Quello che facevamo noi. No no, loro intendevano proprio studiare latino e greco». Già, è un altro mondo, ma la mia prevenzione iniziale lascia pian piano il posto a uno stupito rispetto: «Sono davvero convinti di quello che fanno - mi spiega il preside - e hanno capito che una mobilitazione esclusivamente giovanile avrebbe un peso minore. La loro paura è solo quella di essere manipolati, strumentalizzati dalla politica». La Gelmini ha fatto il miracolo, ha saldato due generazioni lontanissime. Quella che faceva la coda in un corridoio fumoso al telefono a gettoni: «Mamma non rompere, sto occupando, non ci torno a casa, qui si fa la rivoluzione» e questo centinaio di suonerie che trillano nell’aria limpida: «Mamma dai sbrigati, che facciamo la rivoluzione».