9 maggio 1978. Uno dei giorni più cupi per lo Stato italiano. A Roma, in via Caetani, viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro. Nella stessa notte, qualche parallelo più giù, in Sicilia, a Cinisi, all'una e quaranta, viene stroncata la vita di un giovane siciliano, Peppino Impastato. Prima legato ai binari della ferrovia e poi fatto esplodere con il tritolo. Suicidio, dicono le autorità. Quelle stesse autorità che qualche anno prima hanno affermato che l'anarchico Pinelli cadde "accidentalmente" dalla finestra. Peppino era un ragazzo: la vita, la politica e soprattutto la sua terra. Una terra malata, che avrebbe potuto abbandonare emigrando al nord, ma che non ha voluto abbandonare. Ha preferito tentare di cambiarla.
Chi era Peppino? Lo scopriamo insieme a Giovanni Impastato, suo fratello.
Peppino non era un eroe, ma è un punto di riferimento per tutti quelli che hanno combattuto e combattono la mafia. Era un fautore della disobbedienza civile e pacifica. Era un innovatore, un pioniere della comunicazione, della sua artiglieria facevano parte mostre fotografiche, radio, club cinema-cultura (precursore dei centri sociali). Aveva capito il potere dell'ironia, tramite la radio del gruppo, Radio Aut, metteva in ridicolo i mafiosi, minando il loro ascendente sulla popolazione.
Com'era il rapporto con la famiglia?
Molto difficile. Nostro zio, Cesare Manzella, e nostro padre erano entrambi mafiosi, anche se a livelli diversi. Peppino ha avuto il coraggio di spezzare questi legami e ne ha pagato le conseguenze. Per molti è questa la maggiore difficoltà: denunciare un parente.
Quindi la mafia è un fenomeno sociale?
Assolutamente. E' un fenomeno sociale e culturale e per sconfiggerla non bastano gli arresti: i criminali vanno e vengono, ma la mentalità resta.
Quali sono i mezzi per combatterla?
La presenza di istituzioni statali forti, un piano di sviluppo economico serio e soprattutto l'educazione alla legalità che spesso è mancata e manca nel nostro Paese.
Lei crede che ci sia legalità in Italia?
No, e me ne accorgo da alcuni segnali: gli inquirenti che per primi hanno lavorato sull'omicidio di Peppino hanno fatto sparire le prove che attestavano la verità. Le autorità hanno tentato di farlo passare come un terrorista, morto per sbaglio durante la preparazione di un attentato, e solo grazie al lavoro di alcuni magistrati coraggiosi, come Chinnici, Caponnetto, e Falcone (che, guarda caso, sono stati uccisi), Tano Badalamenti, mandante dell'omicidio, è stato condannato a 24 anni di distanza dal delitto. Non penso che stragi come Portella delle Ginestre, dove nel 1947 vennero massacrati contadini e socialisti per bloccare il processo di rinnovamento annunciato dalla sinistra in Sicilia, siano sintomi di un Paese civile e democratico.
Cosa significa per lei la parola "legalità"?
Legalità non significa solo rispetto delle leggi, specie se queste vanno ad intaccare la dignità umana. Significa anche lottare e impegnarsi a cambiare la legge, quando ci sembra ingiusta. Non è nient'altro che la disobbedienza civile. E Peppino la praticava già ai suoi tempi, dagli anni '60, quando si metteva davanti alle ruspe che dovevano radere al suolo i terreni espropriati dallo Stato con la forza ai contadini locali.
Cosa si dovrebbe fare dunque per promuovere la legalità nel nostro Paese?
Basterebbe lottare perché vengano applicati i principi della nostra Costituzione e portare avanti il valore dell'antifascismo, troppo spesso dimenticato.
A che punto siamo, oggi, nella lotta contro la mafia?
E' indubbio che siano stati fatti grandissimi passi, e proprio per questo oggi non basta più parlare di "lotta alla mafia", ma si deve cominciare a parlare di "sconfitta della mafia".
Diceva Giovanni Falcone:
"La mafia è un fenomeno umano, e come tale, ha un inizio e una fine".
Simone Bauducco,
Maria Lia Malandrino,
studenti del Liceo Alfieri (To
Questa intervista è tratta dal giornalino L'Urlo del Liceo Alfieri di Torino
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