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19.7.09

RAPPORTO DELL'UOMO CON LA NATURA di Valerio Toldonato (Maturità 2009, Liceo classico Alfieri, Asti)

Sin dalla propria comparsa sulla Terra, l'uomo ha dovuto relazionarsi continuamente con l'ambiente circostante: tanto i primi ominidi, che ritenevano i fenomeni naturali il risultato dell'azione di forze divine a loro ignote da placare con rituali e sacrifici, quanto gli esponenti della più elevata filosofia hanno tutti cercato di comprendere quale sia il ruolo dell'uomo nel mondo in cui - per usare un'espressione presa a prestito dall'esistenzialismo - si trova ad essere gettato.
Le diverse interpretazioni di tale questione da parte di poeti, artisti e filosofi di ogni epoca hanno originato svariate percezioni, le quali spaziano fra la concezione di una natura benigna, capace di entrare in simpatetica risonanza con le passioni umane, e quella di una natura maligna, interessata solo alla propria sopravvivenza collettiva a danno delle vite dei singoli individui. Fra questi due poli opposti si possono trovare molte altre interpretazioni, come il pampsichismo Bruniano o l'organicismo finalistico ed immanentistico Schellinghiano, per citarne solo alcune.

Nell'intento di prendere in esame qualcuno degli autori di opere concernenti questo tema, troviamo per primo, volendo cominciare da coloro che entrano in pacifica simbiosi con la natura, il poeta alessandrino Teocrito. Nato a Siracusa intorno al 315 a. C. e deceduto ad Alessandria alla corte del sovrano Tolomeo II Filadelfo, egli fu il portavoce di un Ellenismo meno dottrinario di quello di Callimaco ed Apollonio Rodio, ma, proprio per questa moderazione, degno di maggiore fortuna letteraria. Ciononostante, anche Teocrito si configura come poeta dotto: egli sperimenta l'uso dell'esametro, foriero dell'energia battagliera dei poemi epici, come significante di un contenuto opposto: si esprimono infatti in esametri i poeti pastori che descrivono la campagna come locus amoenus nel quale sono perfettamente integrati. In ciò, l'autore non si esime dall'uso di una certa ironia nei confronti dei personaggi: essa nasce dalla discrepanza creata fra il realismo con cui sono caratterizzati i pastori e l'abilità poetica che costoro sfoggiano.
Un testo da cui si evinca quanto sopra accennato è l'idillio VII: nelle Talisie, il personaggio di Simichida, narratore della storia ed alter-ego di Teocrito stesso, ricevuto dal capraio Licida, famoso per la dolcezza del canto, il suo bastone come riconoscimento di abilità poetica, riprende il cammino verso il luogo della festa, del quale il poeta fornisce un'ampia descrizione dai colori molto caldi, tipici dell'estate arcadica. Di tale opera vengono presentati i versi conclusivi.


Così dissi;
ed egli, sorridendo soavemente,
come prima, il bastone mi concesse,
quale dono ospitale delle Muse
e, voltando a sinistra, proseguì
per la strada di Pissa e noi, avviatici
Èucrito, il bell'Amíntico ed io stesso
da Frasidàmo, su giacigli morbidi
di tenero lentisco ci adagiammo
e su foglie di vite appena colte
con grande godimento. Su di noi
con forza si scuoteva un fitto bosco
d'olmi e pioppi e lì accanto zampillava,
gorgogliando dall'antro delle Ninfe,
la fonte sacra e dagli ombrosi rami
si affannavano a urlare le cicale
annerite dal sole. Da lontano
la rana gracidava dagli spini
fitti dei pruni. Cardellini e allodole
cantavano, la tortora gemeva
e volavano in giro le api d'oro
presso le fonti. Tutto aveva odore
di pingue estate, odore di raccolto.
Le pere ai nostri piedi rotolavano,
le mele, ai nostri fianchi, in abbondanza
e i rami sotto il peso delle prugne
giungevano curvati fino a terra.
Dalla testa degli orci scioglievamo
i sigilli di pece di quattro anni.
Ninfe della Castalia, abitatrici
del Parnaso scosceso, pose mai
Chirone il vecchio un tal cratere a Eracle
sotto l'antro di Folo, irto di pietre?
Forse presso l'Anàpo Polifemo,
il forzuto pastore che colpiva
navi con le montagne, nella tana
fu convinto a danzare da un tal nettare,
quale, Ninfe, faceste scaturire
da bere presso l'ara di Demetra,
protettrice dell'aia? Sul suo mucchio
possa io piantare un grande ventilabro
e la dea rida con le mani piene
di mannelli di spighe e di papaveri.
( Idilli, VII, 130-157 )

Dalla poetica di Teocrito prende le mosse la prima produzione virgiliana. Il poeta latino cantore di Enea compose infatti le Bucoliche riferendosi al modello degli Idilli del poeta siracusano. L'opera in questione nasce dalla profonda sensibilità interiore di Virgilio: egli assiste alla violenza delle guerre civili, dalle quali esce consolidato il potere progressivamente più dispotico di Ottaviano Augusto, presso la corte del quale Virgilio verrà accolto a scopi propagandistici: dagli «haud mollia iussa» di Mecenate hanno infatti origine le Georgiche. Le Bucoliche però vengono composte spontaneamente. In linea con l'epicureismo del λάθε βιώσας, esse sono un rifugio dalla realtà: all'infuriare delle guerre civili e agli espropri delle terre, Virgilio contrappone un locus amoenus pacifico e protetto che possa permettere di estraniarsi, almeno con il pensiero, dal disordine del mondo esterno. Nonostante ne abbia tratto ispirazione, per alcuni tratti il poeta latino si discosta dal modello teocriteo, come ha osservato Bruno Snell. I pastori di Virgilio infatti sono personaggi idealizzati, molto lontani dal reale, puri come i loro canti: ciò è determinato del desiderio di allontanamento dalla realtà. Il filologo tedesco fa notare appunto che tali «pastori sono lontani tanto dalla vera vita rustica quanto da quella raffinata delle città», così come i loro modi di esprimersi sono imparagonabili alla lite fra Eumeo e Melanzio nell'Odissea. Manca inoltre nelle Bucoliche la componente dell'ironia, al posto della quale subentra un pathos di ascendenza tragica: nonostante lo scopo prepostosi inizialmente, l'autore non riesce a tenere lontano dalle Ecloghe la malinconia derivante dall'amara situazione politica in cui versa lo stato. La precarietà dei possedimenti terrieri di Melibeo, minacciati dagli espropri, riflette quella di Virgilio. Un'altra differenza fra i due autori risiede nelle tipologie di paesaggio descritte: mentre Teocrito è affascinato dai caldi luoghi arcadici, Virgilio canta un'Arcadia simile ai propri luoghi nativi: la Gallia Cisalpina sfumata nella «dorata nebbia della lontananza» (B. Snell): questi luoghi malinconici sono proprio lo specchio di un'anima altrettanto malinconica, come quella del poeta. Ecco un esempio.

MelibeoFortunato vecchio! Dunque i campi rimarranno tuoi,e grandi abbastanza per te, sebbene la nuda pietrae la palude con i fangosi giunchi invadano tutti i pascoli.Non nuoceranno alle gravide pecore i pascoli inconsueti,né il contagio di un vicino armento porterà danno.Fortunato vecchio, qui tra i noti fiumie le sacre fonti godrai il fresco all'ombra:qui sul vicino confine di sempre la siepe,succhiata nei suoi fiori di salice dalle api iblee,spesso con lieve sussurro ti inviterà ad addormentarti;di qui sotto un'alta rupe canterà all'aria il potatore;e frattanto le roche colombe, tuo amore,e la tortora dall'aereo olmo non cesseranno di gemere.

( Bucoliche, Ecloga I, vv. 46-57 )

Una più radicale adesione al pensiero epicureo è quella di Lucrezio: egli pone tale filosofia alla base del proprio razionalismo. Il De rerum natura contiene già nel titolo una forte carica distruttiva di tutte quelle credenze che hanno obnubilato la mente degli uomini facendo loro credere qualsiasi cosa ed istillando loro un'eccessiva paura esistenziale. Il poema lucreziano possiedi quindi un altissimo grado di pericolosità per i detentori del potere, sia nella società romana, sia in quella medievale: per questa ragione fu quindi spesso sottoposto a censura. Nella sua opera di rivelazione della vera natura delle cose, Lucrezio usa un tono profetico e questo aspetto è molto interessante: egli è pertanto, per definirlo con un'espressione quasi ossimorica, profeta del vero.





O misere menti degli uomini, o animi ciechi!
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre questa breve vita!

( De rerum natura, II, vv. 14-16 )

Lucrezio pone in grande rilievo l'importanza di Epicuro, riservandogli vari elogi nel corso del poema e decantandolo come scopritore del vero e benefattore dell'umanità: Lucrezio stesso riconosce infatti al filosofo greco la paternità delle dottrine esposte nel poema.

Quando la vita umana giaceva turpemente davanti agli occhi

sulla terra schiacciata sotto la pesante religione

che protendeva il capo dalle regioni del cielo

incombendo sui mortali con aspetto orribile,

per primo un uomo greco osò alzare contro

gli occhi mortali e per primo opporsi contro,

e non lo frenò la fama degli dei nè i fulmini

nè il cielo con il mormorio minacciante, ma questo

stimolò di più l'ardente virtù dello spirito, desiderando per primo

di infrangere gli stretti serrami delle porte della natura.

Quindi prevalse la vivace forza dell'animo, e avanzò a lungo

oltre le mura infiammate dell'universo

e percorse con la ragione e l'animo l'immenso universo,

da cui, vittorioso, riporta a noi cosa possa nascere,

cosa non possa, infine per quale ragione ogni cosa abbia

una legge definita e un limite profondamente fisso.

Perciò la religione messa sotto i piedi a sua volta

viene calpestata, la vittoria ci uguaglia al cielo.

( De rerum natura, I, vv. 62-79 )


Ora la realtà è finalmente svelata agli occhi dell'uomo e la religione-superstizione ha smesso di ingannarlo. Purtroppo però, la scoperta della vera natura delle cose porta con sé grande amarezza: si giunge alla triste quanto veritiera e tangibile conclusione che il mondo non sia stato creato per l'uomo, il quale per vivere all'interno di esso deve adattarsi usando la ragione, mentre altre creature più selvagge sono a loro agio per costituzione naturale.


E quand'anche ignorassi quali siano i primi elementi delle cose,

questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni

del cielo e comprovare in forza di molte altre cose:

che la natura del mondo non è stata per nulla disposta

dal volere divino per noi: di così grande difetto essa è dotata.

In primo luogo, di quanto copre l'ampia distesa del cielo,

una grande parte è occupata da monti e selve

dominio di belve, la posseggono rupi e deserte paludi

e il mare che vastamente disgiunge le rive delle terre.

Inoltre, quasi due terzi il bruciante calore

e l'assiduo cadere del gelo li tolgono ai mortali.

Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza

lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo,

per i bisogni della vita avvezzo a gemere sul robusto

bidente e a solcare la terra cacciandovi a fondo l'aratro.

Se, rivoltando col vomere le glebe feconde e domando

il suolo della terra, non le stimolassimo al nascere,

spontaneamente le piante non potrebbero sorgere nell'aria pura;

e nondimeno, talora, procurate con grande fatica,

quando già per i campi frondeggiano e tutte fioriscono,

o le brucia con eccessivi calori l'etereo sole

o le distruggono improvvise piogge e gelide brine,

e le devasta con violento turbine il soffiare dei venti.

E poi, la razza orrenda delle fiere, nemica

del genere umano, perché la natura in terra e in mare

la alimenta e la accresce? Perché le stagioni apportano

malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?

E inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva

da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,

bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire

con sforzi fuori dal ventre della madre alle rive della luce,

e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto

per uno che nella vita dovrà passare per tanti mali.

Ma crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere,

né c'è bisogno di sonaglini, per nessuno occorre

la carezzevole e balbettante voce dell'amorevole nutrice,

né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni;

infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura,

per proteggere i propri averi, giacché per tutti tutto

largamente producono la terra stessa e la natura artefice.

( De rerum natura, V, vv. 195-234 )

Tale interpretazione della natura ed il fatto che il poema termini con un evento tragico quale la peste di Atene non lasciano dubbio alcuno circa il pessimismo lucreziano.

Questi due autori latini del I secolo a.C. sono i capostipiti di due filoni di segno opposto che attraversano la letteratura di tutte le epoche: la concezione di una natura insensibile alle esigenze umane ha enorme rilievo nell'opera di Giacomo Leopardi ( di cui si tratterà in seguito ); quella della natura come rifugio del poeta che rifiuta la realtà è invece alla base della poetica di Giovanni Pascoli. Un dato importante che pone quest'ultimo a buon diritto nel solco tracciato dalla tradizione virgiliana è il fatto che la sua prima raccolta di poesie, Myricae, prenda il nome da un termine che si incontra in uno dei primi versi della IV Bucolica.
Pascoli vive un'esistenza travagliata da numerosi lutti familiari, il più grave dei quali è rappresentato dalla morte del padre il 10 agosto 1867, quando il poeta aveva solo dodici anni. Questo trauma infantile arresta la crescita di Pascoli sotto molti aspetti della vita sociale, impedendogli di raggiungere traguardi quali il matrimonio e l'allontanamento dalla sorella Maria, chiamata con affetto Mariù, con la quale trascorrerà tutta l'esistenza. Questa chiusura del poeta all'interno della sua famiglia più intima si esprime in poesia attraverso il concetto del «nido». La sua poetica verte anche sulla tematica del fanciullino, sulla teoria cioè che ogni persona conservi anche da adulta e da anziana la propria sensibilità di bambino. Per questa ragione il poeta è anche veggente: tramite una visione infantile della realtà, egli è in grado di coglierne aspetti invisibili a chi non dia ascolto al fanciullino. Pascoli guarda con candore alla natura e la descrive in termini specifici e persino con onomatopee, pur riuscendo a mantenere un registro elevato. Attraverso il linguaggio della quale crea il proprio simbolismo, com'è evidente nella poesia Il gelsomino notturno, nella quale le descrizioni di fiori, frutti ed altri elementi naturali alludono a quella dell'atto sessuale, realtà alla quale il poeta guarda con un certo distacco, indice del tormento interiore vissuto da Pascoli.

Il Gelsomino notturno (dai Canti di Castelvecchio)

E s'aprono i fiori notturni,

nell'ora che penso a' miei cari.

Sono apparse in mezzo ai viburni

le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.

Sotto l'ali dormono i nidi,

come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala

l'odore di fragole rosse.

Splende un lume là nella sala.

Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.

La Chioccetta per l'aia azzurra

va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala

l'odore che passa col vento.

Passa il lume su per la scala;

brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali

un poco gualciti;

si cova, dentro l'urna molle e segreta,

non so che felicità nuova.


Prendendo in esame il filone pessimistico, si giunge in letteratura italiana a Giacomo Leopardi: nato nel 1798 a Recanati, vive un'infanzia difficile subendo un'educazione rigorosissima da parte della famiglia, al punto da definire la propria abitazione paterno ostello, e vivendo un rapporto di amore-odio con lo studio. Leopardi ha sempre sostenuto una concezione pessimistica della realtà, in un primo tempo mitigata dall'idea di una natura benigna che, attraverso le illusioni, celasse all'uomo l'«orrido vero». Al primo Leopardi appartiene anche il concetto del pessimismo storico: gli uomini, nel corso della storia, si sono allontanati dalla via che la natura benigna tracciò loro per limitarne le sofferenze: per questo motivo gli antichi erano più felici e più forti fisicamente, semplicemente perchè erano più illusi. In seguito, il poeta approda alla fase del celeberrimo pessimismo cosmico: la natura non opera più per il bene delle sue creature, secondo una concezione finalistica, ma è soltanto un ente regolato da leggi meccaniche al quale importa unicamente la sopravvivenza del mondo, secondo una concezione meccanicistica e materialistica. Troviamo queste idee espresse in alcuni versi dei Grandi idilli e soprattutto nelle Operette morali, una delle quali, Dialogo della Natura e di un Islandese, affronta direttamente il problema. Alle incalzanti domande dell'Islandese, la Natura risponde facendo riferimento alle teorie meccanicistiche sopra citate.

Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

( Dialogo della Natura e di un Islandese )

O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

( A Silvia, vv. 36-39 )


Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E' lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.


( Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 53-60 )

E' interessante confrontare il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia con il II Idillio di Teocrito, poiché, mentre la protagonista di questo, Simeta, immagina una partecipazione della luna ai propri rituali magici (ricorre infatti nella poesia il ritornello «Pensa da dove è nato il mio amore, Luna divina»), il protagonista di quello, il pastore errante, comprende l'estraneità della luna - intesa come sineddoche di tutta la natura – alle vicende umane.

O natura cortese,

Son questi i doni tuoi,

Questi i diletti sono

Che tu porgi ai mortali.

Uscir di pena

E' diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto

Che per mostro e miracolo talvolta

Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana

Prole cara agli eterni! assai felice

Se respirar ti lice

D'alcun dolor: beata

Se te d'ogni dolor morte risana.

( La quiete dopo la tempesta, vv. 42-54 )





Simile al pensiero di Giacomo Leopardi è quello di Arthur Schopenhauer: per entrambi la vita è un «pendolo fra la noia ed il dolore» ed ogni piacere deriva dalla cessazione di un dolore precedente (piacer figlio d'affanno).
Il filosofo di Danzica ritiene che ogni creatura vivente, quindi la totalità del mondo, sia oggettivazione della voluntas, la volontà di vivere (Wille zum leben), un istinto di autoconservazione, un impulso del tutto irrazionale (per questa caratteristica della voluntas, alcuni hanno visto in essa un antecedente dell'inconscio freudiano) che Schopenhauer ritiene sia nient'altro se non la cosa in sé, tanto ricercata da Kant quanto mortificata dagli idealisti. Essa non è inattingibile e l'unico modo per raggiungerla è l'autointuizione noumenica che di essa ci fornisce il nostro corpo: l'uomo infatti non è una «testa d'angelo alata senza corpo». L'accesso alla cosa in sé ci permette di squarciare il velo di Maya (termine che deriva dalle filosofie orientali, che Schopenhauer ammirava), cioè della rappresentazione. Ed è proprio sulla dicotomia fra volontà e rappresentazione che è costruita tutta la filosofia schopenhaueriana. Mentre prima in Kant il fenomeno godeva di una certa importanza poiché, essendo il noumeno irraggiungibile, l'esperienza sensibile era l'unica che l'uomo potesse provare, ora in Schopenhauer si è finalmente riusciti a superare il velo della rappresentazione raggiungendo la cosa in sé. Ciò però rappresenta un'amara sorpresa, poiché si viene a scoprire che il noumeno, cioè la voluntas, è una cosa negativa: la vera sostanza del mondo è il male! Tale volontà è inconscia e si serve della ragione soltanto come mezzo per raggiungere i propri scopi; è unica, poiché esiste al di fuori delle categorie di spazio, tempo e causalità e si oggettiva per gradi: - influenza neoplatonica – prima negli archetipi (le idee platoniche), poi in ogni creatura ed oggetto. Essendo al di fuori del tempo, la volontà è anche eterna, ed essendo irrazionale, cioè al di fuori della categoria di causa, è anche assurda e cieca: ogni manifestazione della volontà non riesce a capire di essere solo parte della volontà stessa, riconoscendo solo sé stessa, e vede perciò negli altri solamente strumenti da sfruttare per la propria sopravvivenza, non altre manifestazioni della stessa volontà. Dato che tale volontà è maligna, deve essere combattuta, trasformata cioè in noluntas: per compiere ciò, Schopenhauer propone due soluzioni: l'etica della pietà e l'ascesi, quest'ultima di derivazione orientale. La prima consiste nel giungere alla comprensione del fatto che ciò che mi sembra altro da me in realtà non lo è, poiché siamo tutti oggettivazioni fenomeniche della volontà: è quindi una forma nobile di altruismo disinteressato.
La seconda propone l'annullamento della volontà attraverso il raggiungimento del nirvana. Schopenhauer condanna invece il suicidio, ritenendolo, anziché una rinuncia alla volontà, una maggiore affermazione di essa, poiché compiendo tale gesto un individuo rifiuta non la volontà ma le proprie condizioni di vita insoddisfacenti.
Ci sono però alcune differenze fra le Weltanschauungen dei due pensatori.
Il pensiero filosofico schopenhaueriano è più complesso di quello di Leopardi: quest'ultimo ammette il suicidio, ritiene che soltanto la condizione umana sia malvagia, non l'intero mondo, e percepisce – similmente ad Agostino – il male come assenza di bene. Questa concezione è più pessimistica di quella del filosofo di Danzica, perché quest'ultimo pone una voluntas negativa lasciando la speranza che possa essere convertita in qualcosa di positivo, mentre in Leopardi ciò non potrebbe avvenire.

Sul filone pampsichistico, si inserisce la Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge.
In questa poesia la natura è un organismo che vive in buona armonia con l'uomo, a meno che egli non pecchi di empietà nei suoi confronti, come nel caso dell'uccisione dell'albatro, compiuta senza una precisa ragione dal vecchio marinaio. A tale atto di υβρις segue una vendetta molto dura da parte della natura: la Morte, divinizzata, vince l'anima dei marinai dell'equipaggio, i quali periscono in atroci sofferenze, la Vita-in-morte,anche lei sotto forma di divinità, vince l'anima del vecchio marinaio, il quale è costretto a soffrire fino al momento dell'apparizione di serpenti marini dai molti colori e del pentimento del protagonista. Questo momento fa da spartiacque nella vicenda: prima intorno al vascello si addensavano creature mostruose e spiriti maligni descritti con il gusto romantico per il cupo ed il mostruoso, dopo, le creature acquistano una valenza positiva: guidano il marinaio sulla buona strada, in senso sia reale, sia figurato. Il protagonista apprende in tal modo il rispetto per la natura, dietro la quale è nascosto il divino, ma è condannato a raccontare la propria storia in eterno. La ballata è quindi composta ad anello. Essa è un racconto nel racconto: si apre con il convitato del matrimonio che non riesce a sottrarsi al racconto del vecchio marinaio, attirato dal potere magico di costui, e si chiude con lo stesso convitato che si dilegua «più triste ma più saggio divenuto».
La grandezza di Coleridge risiede nel descrivere scene surreali e soprannaturali rendendole il più simili possibile al racconto di un'avventura realmente accaduta. A questo scopo compie un lavoro di epurazione del lessico, cercando di giungere ad una lingua «antica come l'antico marinaio, arcaica e semplice,densa di tutta la meraviglia dei libri e dei viaggi. [ ... ] E' la lingua ideale, perduta nella diversificazione sociale, storica, individuale: ritrovata ogni volta dal poema. E' la lingua della prima parola con cui l'uomo spezza il silenzio» (Ginevra Bompiani).


The ice was here,

the ice was there,

the ice was all around:
it cracked and growled,

and roared and howled,

like noises in a swound!
( vv. 59-62 )


(traduzione di Mario Luzi:

Il ghiaccio era dovunque,

era qua, era là:

era tutto all'intorno;

crepitava, gemeva ed ululava!

Come, svenuti, s'ode un vano rombo. )


The very deep did rot: O Christ!

That ever this should be!

Yea, slimy things did crawl with legs
upon the slimy sea.

( vv. 123-126 )


(traduzione di Mario Luzi:

Anche il profondo imputridiva, o Cristo!

Che dovesse accaderci tale cosa!

Strisciavano vischiosi sulle zampe

corpi informi per l'acqua vischiosa. )


I pass, like night, from land to land;
I have strange power of speech;
that moment that his face I see,
I know the man that must hear me:
to him my tale I teach. .

( vv. 586-590 )


(traduzione di Mario Luzi:

Di terra in terra migro come l'ombra;

strano potere è nelle mie parole;

subito, appena ch'io ne veda il volto,

so l'uomo che mi deve dare ascolto:

A lui fo il mio racconto)



Nella corrente del Romanticismo, troviamo anche Caspar David Friedrich. Questo artista, nel dipingere un paesaggio, cerca di farne risaltare il sentimento che esso trasmette all'uomo. In linea con la poetica del sublime, ritrae situazioni in cui si manifesta la potenza scatenata degli elementi della natura. Sovente, tale grandezza è posta in contrasto con la piccolezza dell'essere umano e della sua condizione esistenziale: in tal modo l'uomo ha l'impressione di trovarsi ad essere un minuscolo puntino circoscritto immerso in un universo infinito e maestoso, capace di suscitare per questo sensazioni sublimi. Raffigurazioni in grado di esemplificare chiaramente quanto affermato sono il Viandante sul mare di nebbia, il Monaco in riva al mare, Spiaggia Paludosa ed il Mare di ghiaccio, che richiama la ballata di Coleridge.
Per comprendere appieno tale poetica, essa può essere confrontata con quella del pittoresco, esponente maggiore della quale fu John Constable, i cui quadri sono veri e propri idilli in cui la natura è pacifica amica dell'uomo.










L'arte di Friedrich subisce anche gli influssi della poesia cimiteriale, sapientemente trasposti sulla tela nel caso dell'Abbazia nel querceto, opera valida anch'essa per operare un confronto fra le dimensioni umane e quelle degli elementi naturali, in questo caso gli alberi, ribadendo così il motivo dominante della pittura di Friedrich: il sentimento della finitudine umana nell'infinito della natura.












APPROFONDIMENTO FILOSOFICO


Riflessioni sull'accostamento operato da Paul Ricoeur di Marx, Nietzsche e Freud come «maestri dei sospetto»












Il filosofo Paul Ricoeur interpreta Marx, Nietzsche e Freud come "maestri del sospetto". Tale definizione mette in evidenza il fatto che questi tre pensatori hanno cercato di far apparire la vera essenza della coscienza, quindi della realtà, distruggendo molte delle certezze tradizionali della loro epoca. Da ciò si origina la dissacrazione della religione, spiegandola come un sistema che doveva fungere da instrumentum regni (l' "oppio de popoli" marxiano), come un "platonismo per il popolo" (Nietzsche), o come un insieme di rituali collettivi volti all'appagamento del desiderio atavico di protezione dell'uomo, nella dialettica figlio (umanità) – padre (dio), secondo l'interpretazione di Freud. Così scrive Ricoeur, citando Heidegger: "La «distruzione» dei mondi retrogradi è un compito positivo, ivi compresa la distruzione della religione, nella misura in cui essa è, secondo il detto di Nietzsche, un «platonismo per il popolo»".
Dopo la distruzione delle certezze illusorie che hanno soffocato la verità, è però necessario che essa sorga nella sua più chiara espressione: da quest'esigenza nasce infatti la frase nietzschiana: "Morti son tutti gli dei: ora vogliamo che il superuomo viva!" (Così parlò Zarathustra, parte prima, della virtù che dona, par. 3). E per dare vita al superuomo è necessario attenersi alla realtà senza cercare sovraterrene certezze, restando quindi fedeli alla terra. La realtà va perciò analizzata in maniera ermeneutica, e ciò viene compiuto dai tre pensatori in questione, ognuno dei quali ha preso in esame tutto il reale, non solo una specifica branca dello scibile, come lo studio scolastico dei tre filosofi potrebbe far credere. Ricoeur puntualizza ciò scrivendo: "Siamo ancora troppo attenti alle loro differenze, cioè, in definitiva, ai limiti imposti a questi tre pensatori dai pregiudizi della loro epoca, e siamo soprattutto vittime della scolastica in cui vengono chiusi dai loro epigoni: Marx cioè è relegato nell'economismo marxista e nell'assurda teoria della coscienza-riflesso, Nietzsche viene tirato verso un biologismo se non addirittura verso un'apologia della violenza, Freud è accantonato nella psichiatria, ridicolmente camuffato con un pansessualismo semplicistico".
Tutti e tre compiono un processo analitico a ritroso, partendo cioè dalle manifestazioni fenomeniche della realtà (che possono in prima istanza apparire disordinate e prive di senso) per giungere ai fattori che le hanno originate e ai processi attraverso i quali esse acquistano l'aspetto con cui appaiono. Tenendo conto di queste dinamiche, comprendiamo come la mancanza di ordine e di senso ravvisata in precedenza fosse solo apparente. Tutti e tre i filosofi hanno analizzato la propria materia d'indagine con il metodo che si esplicita in Freud nell'interpretazione dei sogni, quindi nella comprensione dei fenomeni che hanno dato una parvenza irrazionale a ricordi reali. Questo è il significato della complessa frase di Ricoeur : "A partire da loro, la comprensione è ermeneutica: cercare il senso, ormai, non significa più sillabare la coscienza del senso, ma decifrare le sue espressioni".










BIBLIOGRAFIA

R. Rossi, U.C. Gallici, G. Vallarino, L. Pasquariello, A. Porcelli – 'Eλληνικά, Paravia

Dario Del Corno – Letteratura Greca, Principato

Luca Canali – Camena, Einaudi Scuola

Luciano Perelli – Storia della letteratura latina, Paravia

Giovanna Garbarino, - Opera, Paravia

Bruno Snell – L'Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in La cultura Greca e le origini del pensiero europeo

Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria – La letteratura, Paravia

Ginevra Bompiani (a cura di) – Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, traduzione di Mario Luzi, BUR

Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero – Protagonisti e testi della Filosofia, Paravia

Rielaborazione di testi di Storia dell'arte italiana a Cura di Clara Calza, Saverio Hernandez, Edoardo Varini – Lezioni di Arte, Electa Bruno Mondadori





Per l'approfondimento filosofico:

Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero – Protagonisti e testi della Filosofia, Paravia

Paul Ricoeur -Il conflitto delle interpretazioni, traduzione italiana, Jaca Book, Milano

Friedrich Wilhelm Nietzsche – Così parlò Zarathustra, Adelphi



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SEDE via Filadelfia, 42 - 10134 Torino, Italy
Consiglio Direttivo: Presidente: Dario Coppola. Vice Presidente: Anton De Nicolò; Tesoriere: Stefano Marino. Per l'iscrizione all'Associazione si può richiedere il modulo in sede o a un membro del Consiglio Direttivo. Mail: ovidiodariocoppola@alice.it
L' ASSOCIAZIONE QUINTILIANO è stata ideata da Dario Coppola nel 2000

ed è stata fondata nel 2010 con Emanuele Amo, Davide Biagioni, Federico Garino, Irene Fusi, Alberto Saluzzo, Jacopo Villani, Alberto Zanello. A questi soci fondatori sono stati aggiunti, con nomina del presidente, Antonino D'Ambra e Daniele Grillo.

collegamento con Q TV

https://www.youtube.com/watch?v=IFy741kbxrQ

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BREVE STORIA dell'Associazione



ASSOCIAZIONE CULTURALE QUINTILIANO - Il 24 settembre 2010 viene costituita a Torino l'Associazione Quintiliano, che opera in città con i suoi comitati territoriali e laboratori scolastici. La fondazione deriva dall'esperienza laboratoriale iniziata nel 2001.
Nel 2001, a Torino, è partito il progetto del primo Laboratorio Culturale che, con le sue attività didattiche, ha contribuito e contribuisce alla costruzione della personalità degli studenti che ancora lo frequentano, aprendo loro gli orizzonti del sapere. Dopo una prima fase sperimentale, il laboratorio è stato ideato, dal prof. Dario Coppola, e ha così preso corpo nel 2004 con l'acronimo LDG, cioè Laboratorio Didattico del Giusti, il liceo torinese nel quale l'attività ha visto i suoi esordi raccogliendo l'eredità di un grande docente di quel liceo, alla cui memoria il laboratorio è perciò stato dedicato: si tratta del prof. Giorgio Balmas.
Dal 2007 il progetto ha allargato il suo raggio d'azione ed è diventato un laboratorio interscolastico al quale, nella IIIB (2008-09) del Liceo Alfieri, è stato attribuito dal fondatore il nome LC QUINTILIANO. Da allora, il laboratorio ha raggiunto con le sue proposte anche gli studenti e i docenti di altre prestigiose scuole torinesi, e della provincia, come il Copernico, il D'Azeglio, il Majorana di Moncalieri e di Torino, il Gioberti, il Cattaneo, il Ferraris, il Cottini, lo Spinelli, lo Steiner, il Gobetti, il Regina Margherita, il Grassi, il Conservatorio Verdi e - anche - l'Università degli Studi e il Politecnico di Torino.
Nel 2009 sono stati attivati nove laboratori paralleli del Quintiliano corrispondenti alle redazioni scolastiche attive nei settori dell'istruzione secondaria (scuole superiori) e degli atenei torinesi.
Nel 2010 viene stilato il progetto della costituzione di un'Associazione Culturale che comprenda i laboratori già attivi e quelli da attivare.

Le proposte culturali dei laboratori sono di vario tipo:

THEATRUM: visione di spettacoli, a teatro;

AUDITORIUM: ascolto di concerti;

CINEFORUM: visione critica di film al cinema; partecipazione a rassegne cinematografiche;

SYMPOSIUM: incontro, con cena, per socializzare e riflettere informalmente, a caldo, sullo spettacolo cui si è assistito, anche con l'ausilio di schede didattiche;

CIVES: approfondimenti su legalità, educazione alla cittadinanza, Costituzione Italiana;

LUDUS: appuntamenti etico-sportivi;

ETHNE: partecipazione alle iniziative multietniche del territorio;

PACHA MAMA: iniziative ambientali ed ecologiche;

GANDHI: iniziative non-violente contro ogni tipo di discriminazione;

AGORÁ: dibattiti su temi d'attualità per la formazione delle opinioni;

BIBLOS: presentazione di libri;
ARTIFICIUM: promozione dei talenti artistici dei nostri allievi ed ex-allievi e progettazione delle visite alle mostre d'arte;
MNEMOSYNE: recupero delle nostre origini culturali nella storia (viaggio nella memoria, rievocazioni, visite a mostre, spettacoli, conferenze, lezioni introduttive alla storia del teatro, del cinema, della televisione e della radio);
MONOGRAPHIA: presentazioni monografiche interdisciplinari di autori attraverso significative opere che hanno arricchito il nostro patrimonio culturale;
EXPERT: trattazione di tematiche, da parte di esperti, per conoscere meglio le dinamiche dei fenomeni che ci presentano l'attualità e la storia;
DOSSIER: approfondimenti, documentazioni, testimonianze, recensioni, raccolte, relazioni, ricerche e tesine;
IN ITINERE: viaggi di istruzione brevi fuori urbe;
CAUPONA: incontri per accrescere e raffinare la cultura enogastronomica;
AUGUSTA TAURINORUM: lezioni itineranti nei luoghi storici della nostra città, che hanno visto transitare i maestri del sapere, e che ancora ne conservano l'eco;

DHARMA: appuntamenti con la filosofia e la spiritualità;
BERUF: informazione e formazione economica;
REPORTER: la realtà fotografata ad arte (mostre fotografiche);
IN CONCERT: reading, tendenze musicali, concerti;
CINEFERIAE: visione critica di film su richiesta degli studenti durante le vacanze.

Inoltre, il settore Informazione dei Laboratori comprende:


MONITOR: avvisi e segnalazioni;
VADEMECUM: segnalazioni di eventi culturali nel territorio urbano;
IN AETHERE: la cultura in tv o via radio;
NEWS: notizie dalle scuole collegate col nostro laboratorio;
WEB: notizie dalla rete.

Nel 2009 sono stati aperti anche:
1) un gruppo ufficiale su Facebook;
2) un canale video "LC QuintilianoTV" su YouTube, che consente un'espressione ulteriore della creatività comune di chi continua a costruire i nostri laboratori.
Gli studenti "storici" che, negli anni passati, hanno contribuito, insieme a decine di altri, con il coordinatore a condurre QUINTILIANO sono stati:

GUGLIELMO SANDRI GIACHINO (2005-06)
NICOLO' STROCCO (2006-07)
FLAVIO MERGOTTI (2007-08)
FEDERICO GARINO (2008-09)
ALBERTO ZANELLO (2008-09)
DAVIDE BIAGIONI (2008-09)
FEDERICO SILVESTRI (2008-09)
JACOPO VILLANI (2009-10)
ALBERTO SALUZZO coordinatore della costituenda Associazione Culturale (2009-10)


dal 24 settembre 2010:

data della costituzione dell'Associazione Quintiliano
Elezione del primo
Consiglio Direttivo (2010 - 11)
Presidente: Dario Coppola. Vice Presidente: Davide Biagioni (da settembre a dicembre 2010); Emanuele Amo (da gennaio 2011); Tesoriere: Federico Garino; Segretario: Alberto Saluzzo (da settembre 2010 a gennaio 2011); Davide Biagioni (da febbraio 2011); Altri Consiglieri: Alberto Zanello, Jacopo Villani, Antonino D'Ambra, Irene Fusi, Daniele Grillo.


dal 24 settembre 2011:
secondo Consiglio Direttivo (2011-12)

Presidente: Dario Coppola; Vice Presidente: Anton De Nicolò; Tesoriere: Stefano Marino; Segretario organizzativo: Ario Corapi (da settembre 2011 a marzo 2012); Jacopo Villani (da marzo 2012). Comitato esecutivo: ai consiglieri sopra citati si aggiungono i sottotesorieri Alessandro Minetti, Jacopo Villani (fino a marzo 2012), Ario Corapi (da marzo 2012) e i sottosegretari Bernardo Basilici Menini, Marcello Fadda.





L'ASSOCIAZIONE NEL PERIODO COMPRESO FRA IL 2013 E IL 2019 ENTRA IN PAUSA E SI LIMITA SOLO A PROMUOVERE EVENTI DI ALTRE ASSOCIAZIONI. NEL 2019 SI TENTA DI RIPRENDERE MA ARRIVA LA PANDEMIA. COL 2022 RIPARTONO I GRANDI EVENTI. LA COMUNICAZIONE SI ARRICCHISCE INOLTRE DEL CANALE INSTAGRAM quintiliano_associazione SEDE ATTUALE: via Filadelfia, 42 Torino Prima sede legale: piazza Vittorio Veneto 13, Torino

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