Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi.
Giuseppe Pontiggia
Giuseppe Pontiggia
Giuseppe Pontiggia nasce a Como nel 1934. Eredita dal padre, che muore quando il figlio è ancora giovane, la passione per i libri. Si impiega in banca e nel 1959 si laurea alla Università Cattolica di Milano con una tesi su Svevo. Negli anni sessanta lascia l’impiego in banca per dedicarsi all’insegnamento e a collaborazioni editoriali con le case editrici Adelphi e Mondadori: del periodo è L’arte in fuga (1968). Il romanzo che lo impone all’attenzione del pubblico e critica è Il giocatore invisibile (1978), cui seguono una nuova stesura della Morte in banca (1979), Il raggio d’ombra (1983), La grande sera (1989), le biografie immaginarie di Vite di uomini non illustri (1993) e Nati due volte (2000). Quest’ultimo romanzo è un inno alla solidarietà, una richiesta di un semplice sorriso: Pontiggia fa rivivere la sua esperienza personale, quella di un padre che vive accanto ad un figlio colpito da tetraparesi spastica. La volontà del padre, che soffre alla presenza di un mondo così distante, è semplice: vivere la normalità, giorno per giorno, tra la paura, la fatica e il dolore.
“AI DISABILI CHE LOTTANO NON PER DIVENTARE NORMALI MA SE STESSI”
“Chi è normale? Nessuno. Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa ad un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: “I normali, tra virgolette” oppure “i cosiddetti normali” (G. Pontiggia, “Nati due volte”, 2000, Oscar Mondadori pag.41)
Se fra i compiti della scuola c’è quello di elaborare nuove forme di cittadinanza, dell’integrazione della scuola e della conoscenza vanno analizzate utilizzando un indicatore più ampio, capace di segnalare se si sta operando per una produzione sociale di vicinanza o di lontananza. Siamo entrati nella società della conoscenza, che è la nuova materia prima, il capitale da spendere, da consumare, da accrescere per competere, è una società che accanto alle sue possibilità contiene alcuni rischi. Il problema etico, oggi, riguarda proprio l’utilizzo delle conoscenze, che possono creare categorie di differenza e sancire un processo di lontananza. L’accesso alle nuove tecnologie, che supportano il processo di diffusione della conoscenza, non è democraticamente diffuso fra gli abitanti del pianeta e le categorie sociali che lo compongono. L’iperspecializzazione in campo scientifico crea circuiti di sapere-potere che estromettono i cittadini da importanti decisioni riguardanti la qualità della vita quotidiana.
Fra i vari rischi, uno dei più rilevanti è legato al ritenere la conoscenza un capitale sociale e chi ne è in possesso diventa “risorsa umana” impiegabile, sostituibile, che non ha diritti civili, politici, culturali. Le conseguenze sono evidenti: l’umano, passando dalla categoria “persona” a quella di “risorsa”, distanzia dal contesto sociale una parte di umanità e rende l’altra parte distanziabile, eliminabile nel tempo. Nel faccia a faccia con la realtà, a partire dalla disabilità di mia cugina Claudia fino a quella di ogni bambino che conosco fra quelli dell’associazione Paideia, va recuperata una responsabilità piena, guidata da un pensiero capace di collegare ciò che è disgiunto, di considerare la relazione fra una parte e il tutto, di leggere i contesti, di produrre vicinanza, dando spazio alla normalità in ogni situazione, anche a quella che nessuno avrebbe mai creduto potesse essere possibile.
COS’E’ LA DISABILITA’?
La disabilità è la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e una serie di fattori personali e ambientali che rappresentano il contesto di riferimento in cui la persona vive ed esprime le proprie capacità. Secondo la classificazione dell’ICD (International Classification of Disabilities and Handicaps), si prevede la distinzione tra:
● menomazione: qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche,
fisiologiche o anatomiche. Essa può avere carattere permanente o transitorio. Rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico.
● disabilità: è interpretata come riduzione parziale o totale della capacità di svolgere un’attività nei tempi e nei modi considerati come normali. Può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile, progressiva o regressiva. Inoltre, può essere conseguenza diretta di una menomazione o una reazione psicologica a una menomazione fisica, sensoriale o di altro tipo.
● handicap: è una condizione di svantaggio risultante da un danno o da una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo normale in rapporto all’età, al sesso, ai fattori sociali e culturali. E’ condizione soggetta a cambiamenti, migliorativi o peggiorativi. Esso rappresenta la discrepanza tra l’efficienza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato, sia dello stesso soggetto, sia del particolare gruppo cui egli fa riferimento. Dunque, riflette le conseguenze a livello culturale, sociale, economico e ambientale che derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità.
Con la Dichiarazione di Madrid, in occasione dell’anno Internazionale della Disabilità (2003), è stato possibile spostare l’interesse da una visione scientifica ad una prettamente sociale. “Le persone disabili devono poter accedere ai comuni servizi sanitari, scolastici, professionali e sociali, così come a tutte le opportunità disponibili per le persone non disabili. Proporre un approccio integrante nei confronti della disabilità e delle persone disabili implica dei cambiamenti radicali nella vita pratica, a vari livelli. Prima di tutto, è necessario assicurare che i servizi disponibili siano coordinati da e tra i vari settori. Le diverse necessità di accesso dei differenti gruppi di persone disabili devono essere tenute in considerazione durante il processo di pianificazione di qualsiasi attività, e non come un adattamento a posteriori ad una pianificazione già prestabilita. I bisogni di una persona disabile e dei suoi familiari sono numerosi, ed è importante sviluppare una risposta comprensiva, che tenga in considerazione sia l'individuo sia i vari aspetti della sua vita”
Tema fortemente discusso è stato quello dell’integrazione scolastica, diritto di tutti i fanciulli. E’ infatti necessario ricordare che un bambino disabile è innanzitutto un bambino.
“Chi è normale? Nessuno. Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa ad un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: “I normali, tra virgolette” oppure “i cosiddetti normali” (G. Pontiggia, “Nati due volte”, 2000, Oscar Mondadori pag.41)
Se fra i compiti della scuola c’è quello di elaborare nuove forme di cittadinanza, dell’integrazione della scuola e della conoscenza vanno analizzate utilizzando un indicatore più ampio, capace di segnalare se si sta operando per una produzione sociale di vicinanza o di lontananza. Siamo entrati nella società della conoscenza, che è la nuova materia prima, il capitale da spendere, da consumare, da accrescere per competere, è una società che accanto alle sue possibilità contiene alcuni rischi. Il problema etico, oggi, riguarda proprio l’utilizzo delle conoscenze, che possono creare categorie di differenza e sancire un processo di lontananza. L’accesso alle nuove tecnologie, che supportano il processo di diffusione della conoscenza, non è democraticamente diffuso fra gli abitanti del pianeta e le categorie sociali che lo compongono. L’iperspecializzazione in campo scientifico crea circuiti di sapere-potere che estromettono i cittadini da importanti decisioni riguardanti la qualità della vita quotidiana.
Fra i vari rischi, uno dei più rilevanti è legato al ritenere la conoscenza un capitale sociale e chi ne è in possesso diventa “risorsa umana” impiegabile, sostituibile, che non ha diritti civili, politici, culturali. Le conseguenze sono evidenti: l’umano, passando dalla categoria “persona” a quella di “risorsa”, distanzia dal contesto sociale una parte di umanità e rende l’altra parte distanziabile, eliminabile nel tempo. Nel faccia a faccia con la realtà, a partire dalla disabilità di mia cugina Claudia fino a quella di ogni bambino che conosco fra quelli dell’associazione Paideia, va recuperata una responsabilità piena, guidata da un pensiero capace di collegare ciò che è disgiunto, di considerare la relazione fra una parte e il tutto, di leggere i contesti, di produrre vicinanza, dando spazio alla normalità in ogni situazione, anche a quella che nessuno avrebbe mai creduto potesse essere possibile.
COS’E’ LA DISABILITA’?
La disabilità è la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e una serie di fattori personali e ambientali che rappresentano il contesto di riferimento in cui la persona vive ed esprime le proprie capacità. Secondo la classificazione dell’ICD (International Classification of Disabilities and Handicaps), si prevede la distinzione tra:
● menomazione: qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche,
fisiologiche o anatomiche. Essa può avere carattere permanente o transitorio. Rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico.
● disabilità: è interpretata come riduzione parziale o totale della capacità di svolgere un’attività nei tempi e nei modi considerati come normali. Può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile, progressiva o regressiva. Inoltre, può essere conseguenza diretta di una menomazione o una reazione psicologica a una menomazione fisica, sensoriale o di altro tipo.
● handicap: è una condizione di svantaggio risultante da un danno o da una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo normale in rapporto all’età, al sesso, ai fattori sociali e culturali. E’ condizione soggetta a cambiamenti, migliorativi o peggiorativi. Esso rappresenta la discrepanza tra l’efficienza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato, sia dello stesso soggetto, sia del particolare gruppo cui egli fa riferimento. Dunque, riflette le conseguenze a livello culturale, sociale, economico e ambientale che derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità.
Con la Dichiarazione di Madrid, in occasione dell’anno Internazionale della Disabilità (2003), è stato possibile spostare l’interesse da una visione scientifica ad una prettamente sociale. “Le persone disabili devono poter accedere ai comuni servizi sanitari, scolastici, professionali e sociali, così come a tutte le opportunità disponibili per le persone non disabili. Proporre un approccio integrante nei confronti della disabilità e delle persone disabili implica dei cambiamenti radicali nella vita pratica, a vari livelli. Prima di tutto, è necessario assicurare che i servizi disponibili siano coordinati da e tra i vari settori. Le diverse necessità di accesso dei differenti gruppi di persone disabili devono essere tenute in considerazione durante il processo di pianificazione di qualsiasi attività, e non come un adattamento a posteriori ad una pianificazione già prestabilita. I bisogni di una persona disabile e dei suoi familiari sono numerosi, ed è importante sviluppare una risposta comprensiva, che tenga in considerazione sia l'individuo sia i vari aspetti della sua vita”
Tema fortemente discusso è stato quello dell’integrazione scolastica, diritto di tutti i fanciulli. E’ infatti necessario ricordare che un bambino disabile è innanzitutto un bambino.
CONVENZIONE SUI DIRITTI DEL FANCIULLO
Art.2 - Non discriminazione. Gli Stati si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni bambino che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione. Gli Stati adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il bambino sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione.
Art.23 - Bambini disabili: gli Stati riconoscono che i bambini mentalmente o fisicamente disabili devono condurre una vita piena, in condizioni che garantiscano la loro dignità, favoriscano la loro autonomia e agevolino una loro attiva partecipazione alla via della comunità. Gli Stati riconoscono il diritto dei bambini disabili di beneficiare di cure speciali in maniera atta a concretizzare la più completa integrazione sociale e il loro sviluppo personale.
Tutti i bambini dovrebbero godere degli stessi diritti in tutto il mondo indipendentemente da razza, religione, cultura o disabilità indipendentemente da quali siano le loro condizioni familiari o personali. Nel 1989, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sui diritti del fanciullo e 191 Paesi (tutti i paesi del mondo ad eccezione degli Stati Uniti e della Somalia) hanno ratificato la Convenzione mostrando volontà di inserire i bambini nella loro agenda politica. Questa Convenzione ha identificato tutti i fanciulli/e, compresi i diversamente abili, come titolari di diritti, ha stabilito un quadro di riferimento internazionalmente accettato per il trattamento di tutti ed ha creato un impiego globale più forte per salvaguardarli.
Non tutti i 191 Governi che hanno ratificato la Convenzione si stanno sforzando di realizzare gli obiettivi. Si può facilmente constatare che i bambini in tutto il mondo continuano a fronteggiare la disuguaglianza nella vita di tutti i giorni, spesso vittime di decisioni politiche, disagi familiari, politiche economiche scarsamente lungimiranti, di guerre e conflitti. Discriminazioni e abusi sono fatti di vita comune per i ragazzi e le ragazze disabili, questi sono spesso esclusi dalla società e raramente viene data loro l'opportunità di partecipare. La loro situazione è spesso dimenticata e ignorata.
La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo è un documento particolarmente interessante innanzitutto perché è una Convenzione, cioè un documento giuridicamente vincolante, con validità pressoché universale con un valore molto più forte di una semplice
dichiarazione. Inoltre è il primo documento internazionale, sui diritti umani, di stampo generalista a dedicare un articolo al tema della disabilità (art. 23). La presenza di tale articolo non limita in alcun modo l'applicazione di tutta la convenzione alla situazione del bambino con disabilità, che quindi come tutti deve poter godere di diritti collegati ad alcuni principi fondamentali:
- sopravvivenza e sviluppo
- superiore interesse del fanciullo
- non discriminazione
- partecipazione attiva del fanciullo
Tutti i diritti dei bambini rispecchiano i loro bisogni basilari. La differenza chiave tra i bisogni e i diritti è la questione della responsabilità. Un approccio basato sui bisogni non attribuisce a nessuno la responsabilità o il dovere di soddisfare questi bisogni. Un approccio basato sul diritto significa attribuire ai Governi l'obbligo di creare le condizioni perché siano rispettati i diritti del bambino.
Per il bambino disabile, il principio della non discriminazione è cruciale e rinforza il fatto che ogni articolo si riferisce al bambino disabile. Per esempio, tutti i bambini hanno il diritto di non venire separati dai loro genitori contro la loro volontà (Art.9). Questo vale anche per i bambini disabili, perciò quando un bambino disabile alla nascita viene allontanato dalla famiglia, collocato in una istituzione unicamente per motivi legati al suo handicap e viene trattato in modo diverso dagli altri bambini, allora si assiste al fenomeno della discriminazione, oltre al fatto dell’avvenuta violazione dell'articolo 9.
QUINTILIANO
Già Quintiliano, maestro della metodologia della comunicazione formativa, prevedeva nel processo educativo da lui elaborato un’educazione morale e una intellettuale, affidate alle istituzioni tradizionali romane: la famiglia e la scuola.
L’ambiente familiare aveva il compito di impartire una prima formazione basilare ed essenziale allo sviluppo dell’uomo, che presupponeva una buona moralità da parte dei genitori. Invece, la figura del maestro era necessaria come tecnico del sapere e come uomo, capace di instaurare un rapporto educativo, fondato sul reciproco senso di stima e affetto. Il maestro fungeva da “genitore spirituale”, una sorta di modello da imitare da parte degli alunni. Egli doveva conoscere la psicologia dei suoi discepoli, cosicché potesse comprenderli e adeguare l’opera educativa alla personalità e al particolare momento psicologico di ciascuno.
Secondo la teoria di Quintiliano, la scuola, intesa come piccola società, è la vera educazione, dove l’alunno apprende a vivere socialmente, si abitua a trattare con i suoi simili, sviluppa i rapporti con gli altri, a differenza di quanto accade con l’ insegnamento individuale, che è solo istruzione. Queste considerazioni si possono trarre dalla sua opera, “Institutio Oratoria”, la prima di tutta la letteratura greco-romana di carattere pedagogico e anche l’ultima. E’ stato detto che di essa solo nove libri sarebbero stati inclusi in un trattato di retorica, mentre gli altri tre, il I, il II e il XII, sono di natura essenzialmente pedagogica. Per altri, invece, la parte educativa si restringerebbe al primo e secondo volume.
MAGISTER "[...] Sumat igitur ante omnia parentis erga discipulos suos animum, ac succedere se in eorum locum, a quibus sibi liberi tradantur, existimet. Ipse nec habeat vitia nec ferat. Non austeritas eius tristis, non dissoluta sit comitas, ne inde odium hinc contemptus oriatur. Plurimus ei de honesto ac bono sermo sit; nam quo saepius monuerit, hoc rarius castigabit. Minime iracundus, nec tamen eorum, quae emendanda erunt, dissimulator; simplex in docendo; patiens laboris; assiduus potius quam immodicus. Interrogantibus libenter respondeat, non interrogantes percontetur ultro. In laudandis discipulorum dictionibus nec malignus nec effusus, quia res altera taedium laboris, altera securitatem parit. In emendando, quae corrigenda erunt, non acerbus minimeque contumeliosus; nam id quidem multos a proposito studendi fugat, quod quidam sic obiurgant quasi oderint. Ipse aliquid immo multa cotidie dicat, quae secum auditores referant. Licet enim satis exemplorum ad imitandum ex lectione suppedit, tamen viva illa, ut dicitur, vox alit plenius praecipueque eius praeceptoris, quem discipuli, si modo recte sunt instituti, et amant et verentur. Vix autem dici potest, quanto libentius imitemur eos, quibus favemus. [...]".
(Il docente) Prima di tutto assuma dunque verso i propri discepoli l'atteggiamento di un padre, e ritenga di prendere il posto di quelli dai quali gli vengono affidati i figli. Personalmente non abbia vizi né li tolleri. La sua severità non sia arcigna, la sua affabilità non sia eccessiva, affinché non si generi dall'una l'odio, dall'altra disprezzo. I suoi discorsi più frequenti siano sull'onestà e il bene; infatti quanto più spesso ammonirà, tanto più raramente castigherà. Non sia per nulla irascibile, e tuttavia non finga di non vedere i difetti da correggere; semplice nell'insegnare, resistente alla fatica, costante piuttosto che troppo esigente. A quelli che gli pongono domande risponda volentieri, e interroghi di propria iniziativa quelli che non gli chiedono nulla. Nel lodare le esercitazioni dei discepoli non sia né (troppo) severo né (troppo) generoso, perché il primo sentimento suscita avversione per il lavoro, il secondo (eccessiva) sicurezza. Nel correggere quei difetti che dovranno essere corretti non sia aspro né tantomeno offensivo; infatti proprio questo allontana molti dal proposito di studiare, cioè il fatto che alcuni rimproverano come se odiassero. Egli personalmente dica ogni giorno qualcosa, anzi molte cose, che gli scolari possano portare via con sé. Sebbene infatti (il maestro) possa fornire attraverso la lettura sufficienti esempi da imitare, tuttavia la cosiddetta "viva voce" nutre più abbondantemente, e specialmente quella di un insegnante che i discepoli, solo che siano bene istruiti, amano e rispettano. A malapena si può dire, poi, quanto più volentieri imitiamo quelli per cui proviamo simpatia
DISCIPULI "[...] Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illuni tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt: modo nulla videatur aetas tam infirma quae non protinus quid rectum pravumque sit discat, tum vel maxime formanda cum simulandi nescia est et praecipientibus facillime cedit; frangas enim citius quam corrigas quae in pravum induruerunt[…]”.
Pertanto una volta rigenerati e freschi di energie (i bambini) dedicano all’apprendimento più forze e nello stesso tempo una mente più acuta, mente che recalcitra in certo qual modo alle costrizioni. E non mi troverebbe sfavorevole neanche il gioco nei bambini (anche questo è segno di vitalità) e d’altra parte non potrei sperare che si mostrasse dotato di una mente recettiva riguardo a ciò che studia quel bambino che fosse musone e sempre in disparte, dal momento che resta inerte anche in quello slancio che dovrebbe essere particolarmente naturale a quella età. I momenti di riposo tuttavia debbono avere una certa misura, per evitare che, se negati, suscitino avversione per lo studio oppure, se concessi in modo eccessivo, provochino una abitudine all’ozio. Inoltre vi sono alcuni giochi tutt’altro che inutili ad acuire le menti dei bambini, quando (per esempio) essi impostano gare di emulazione proponendosi reciprocamente piccoli quesiti o problemi di ogni tipo. Nel gioco anche il carattere si scopre con maggior schiettezza, purché non sembri che nessuna età sia tanto debole da non poter direttamente apprendere cosa sia bene e cosa male; e soprattutto allora deve essere formata, quando non è capace di fingere e si lascia con grande facilità plasmare dagli insegnanti: infatti si potrebbero toglier via più velocemente che correggere i lati negativi del carattere che si siano fortemente radicati.
INTEGRAZIONE SCOLASTICA
L’integrazione è un lungo processo che ha subìto profondi cambiamenti a partire dagli anni Settanta. Cinque sono i momenti da evidenziare, contrassegnati da logiche via via diverse:
● logica dell’esclusione (fino agli anni ’50)
● logica della medicalizzazione (anni ’60)
● logica dell’inserimento (prima metà anni ’70)
● logica dell’integrazione (fino agli anni ’90)
● logica del diritto, della personalizzazione, della “Speciale Normalità” (oggi)
Normalità No
Diritto
Integrazione
Inserimento
Medicalizzazione
Esclusione
Speciale Normalità
LOGICA DELL’ ESCLUSIONE
La fantasia dell’umanità è sempre stata colpita dal diverso e ha reagito spesso ostentando paura, sacralità o rifiuto, ma anche pietà e amore e quasi mai indifferenza.
Solo più tardi con lo sviluppo della medicina e della pediatria ci si è accostati scientificamente al problema.
Tra i primi documenti “scientifici” che presentano un trattamento di persone con ritardo mentale ci è pervenuto, nel 1801, quello del Dott. Jean Itard che fece osservazioni riguardo a un bambino abbandonato e recuperato in una foresta, sul quale era stata formulata una diagnosi iniziale di sordomuto e forse di idiozia. Per il tardivo avvio del trattamento educativo riabilitativo, il bambino rimase sempre “sordo” al linguaggio umano. Da ciò Itard intuisce che la mancanza totale di esercizio rende i nostri organi inadatti alle loro funzioni. Questa infatti è la legge dell’atrofia.
Verso la fine dell’800, si aprono le prime scuole rivolte a questi casi “speciali” soprattutto ai sordomuti, oltre ai minorati psichici. Per un certo periodo esse vengono affidate anche a Maria Montessori, importante pedagogista, che riesce a dimostrare come anche bambini con gravi forme di ritardo mentale possano pervenire a risultati significativi nella lettura e nella scrittura.
Nel 1908 vengono istituite le prime classi differenziali, che assorbono quegli alunni che non sono in grado di frequentare classi normali.
In questo momento l’istituzione scolastica non viene investita del problema del disadattamento, cosicché si parla di Logica dell’Esclusione. Essa si esprime attraverso due comportamenti: il rifiuto e la delega. Il primo consiste nel ritenere che la scuola pubblica statale non debba intervenire sul problema del disabile psichico e sulla sua possibile formazione e ne vieta la presenza nelle classi con i decreti Legge del 1923.
Infatti le leggi e le disposizioni ministeriali cercano di isolare il diverso rinchiudendolo in istituti speciali o in classi differenziali. L’origine di ciò è dovuta alle carenze dello Stato e alla sensibilità di piccole comunità locali e grandi personalità di educatori che si impegnano in questo settore dell’educazione.
Non c’è da meravigliarsi di un simile comportamento: l’Italia passando da una società agricola a una urbana industriale, non ha ancora programmato il bisogno di forze lavoro più qualificate, tra gli operai e braccianti. La scuola, infatti, fornisce loro le capacità prime di leggere, scrivere, contare e l’indispensabile “amor di patria”.
LOGICA DELLA MEDICALIZZAZIONE
A partire dagli anni ’60 lo Stato si interessa direttamente dei diversamente abili gravi attraverso un rafforzamento e una diversificazione delle strutture speciali. L’handicap viene considerato come malattia sociale con un approccio di tipo “medico”. L’attenzione viene focalizzata sul deficit e uno specialista ne elabora la diagnosi “descrittiva”: l’alunno viene così classificato, tanto che la relativa etichetta (sordomuto, autistico…) induce l’insegnante a dare rilievo solo ai comportamenti che rientrano nei giudizi già emessi.
Non si modifica l’atteggiamento della società verso “l’altro”, limitandosi a tutelare il normodotato. Infatti si sostiene la necessità di dover dare ai bambini disabili qualcosa di più rispetto agli altri che la famiglia e la scuola non possono dare, ma in realtà lo si emargina.
E. Levinas, autore di “Totalità e infinito”, afferma che “l'etica dell'Altro da sé muove dalla consapevolezza che ogni individualità deve rispettare la differenza dell'altro, differenza che è mistero incommensurabile, in quanto nulla possiamo sapere degli altri. Ciò che crediamo di sapere degli altri è solo una nostra immagine degli altri, in realtà gli altri sono inaccessibili alla nostra vera conoscenza. Nulla può condurre il mio io ad abbracciare veramente l'altro essere, nemmeno l'amore inteso come volontà di fondersi con l'altro. In realtà l'uomo può solo tendere verso l'altro, riconoscendo la differenza infinita che sussiste tra essere ed essere.”
Il boom economico degli anni ‘60-‘70 porta nelle scuole numerosi “alunni diversi” per linguaggio e per cultura, perciò in molte località del “triangolo industriale” le classi differenziali si riempiono di svantaggiati culturali e sociali. In poco più di un decennio, le classi di scuole speciali delle elementari e delle medie lievitano enormemente.
Nel Nord America, dove la ricerca sulle disabilità e delle riabilitazioni inizia già a partire dal dopoguerra, gli studi influenzano il dibattito psicopedagogico italiano contribuendo alla svolta del periodo successivo, con il superamento del concetto di scuole speciali.
Il boom economico degli anni ‘60-‘70 porta nelle scuole numerosi “alunni diversi” per linguaggio e per cultura, perciò in molte località del “triangolo industriale” le classi differenziali si riempiono di svantaggiati culturali e sociali. In poco più di un decennio, le classi di scuole speciali delle elementari e delle medie lievitano enormemente.
Nel Nord America, dove la ricerca sulle disabilità e delle riabilitazioni inizia già a partire dal dopoguerra, gli studi influenzano il dibattito psicopedagogico italiano contribuendo alla svolta del periodo successivo, con il superamento del concetto di scuole speciali.
Importanti sono gli studi di Goldfarb sulla comparazione tra bambini cresciuti in famiglie adottive e quelli lasciati in istituto, con esiti negativi per questi ultimi.
Si cominciano a nutrire perplessità attorno all’istituzionalizzazione e alle scuole speciali, non solo da parte di ricercatori, ma anche dalle famiglie degli stessi, cercando soluzioni per l’inserimento. Si giunge nel 1971 alla divulgazione della Carta del “Diritto alle pari opportunità educative”, esteso a tutti i disabili. Prendono avvio esperienze di inserimento sostenute dal movimento di “normalizzazione” che promuove la convinzione secondo la quale tutti, disabili e non, debbano poter usufruire dei programmi educativi nel modo meno restrittivo possibile.
LOGICA DELL’ INSERIMENTO
Alla fine degli anni ’60 manca ancora la capacità di affrontare con razionalità la difficile scommessa dell’inserimento e si assiste al formarsi di due schieramenti contrapposti: pro o contro l’inserimento, pro o contro il mantenimento delle scuole speciali. Si delineano due convinzioni: la scuola deve garantire a tutti il tempo e le opportunità di apprendimento per lo sviluppo della persona, deve essere aperta alla partecipazione dell’intera comunità sociale e, per quanto riguarda i problemi dell’handicap, viene sancito il principio secondo il quale l’istruzione dell’obbligo deve avvenire all’interno della scuola.
Si inseriscono nella scuola, soprattutto in quella elementare, i disabili anche molto gravi creando forti reazioni di rifiuto e ghettizzazione interna alle classi.
Occorre per questo formulare considerazioni critiche, tra le quali la concezione ingenua della scuola per cui sembra bastare l’inserimento fisico (ossia passando più tempo a scuola) per procurare vantaggio al disabile, nonostante la mancanza di una riflessione per mettere in atto strategie al fine di attuare una reale integrazione che prenda in esame la complessità delle variabili e le metodologie per conseguirli.
L’apertura della scuola, nonostante le inevitabili resistenze, è stata efficace e ha prodotto e promosso dibattiti intorno alle diverse problematiche, conseguenti all’inserimento.
LOGICA DELL’ INTEGRAZIONE
Con la circolare del 1975 si sostiene che l’inserimento nelle scuole comuni sarebbe stato possibile dalla trasformazione e dal rinnovamento delle scuole stesse.
Le innovazioni introdotte da leggi successive e dai Nuovi Programmi del 1985 per la scuola elementare, nonché per le altre tipologie scolastiche fino agli anni ’90, danno atto che la presenza dell’handicap nella scuola non è più qualche cosa di eccezionale cui far fronte, poiché l’inserimento è una realtà diffusa e quasi scontata.
Il dibattito pedagogico, che ha sollecitato e accompagnato il processo di inserimento degli alunni disabili, presenta un denominatore comune: la convinzione dell’esistenza di uno stretto rapporto fra innovazione della scuola e integrazione.
Non c’è integrazione senza cambiamento.
LOGICA DEL DIRITTO E DELLA PERSONALIZZAZIONE
Con la legge 104/92 il disabile è un “soggetto di diritto” e, di conseguenza, è stata attuata una serie di provvedimenti volti al pieno soddisfacimento di questo diritto.
Oggi gli alunni diversamente abili vivono la loro esperienza formativa con tutti gli altri compagni, sono reciprocamente una risorsa civile ed educativa per la crescita e lo sviluppo dei potenziali cognitivi di tutti.
Occorre considerare che non sempre e non ovunque l’integrazione scolastica è perfettamente riuscita. Infatti essa non è un valore che si acquista una volta per tutte ma si esprime via via con nuove sfide, con contraddizioni tra scuola e scuola, tra scuola e territorio, tra territorio e territorio.
La sfida è quella di migliorare gli apprendimenti con buone didattiche individualizzate e di gruppo per sviluppare tutti i potenziali individuali. Invece la flessibilità data dall’autonomia alle scuole parla di diversità come valore, sia per i soggetti che apprendono, sia per quelli che insegnano. Inoltre l’integrazione tra i diversi servizi è strategica per realizzare pienamente un progetto di vita che dia speranza e futuro a tutte le diverse condizioni personali.
Dall’ 1 settembre 2000 le scuole italiane sono autonome: l’obiettivo è quello di innalzare il livello culturale e il successo formativo.
LOGICA DELLA “SPECIALE NORMALITA’ ”
Il riferimento ad una “disabilità più normale” sembra fare da specchio al concetto di “speciale normalità” per l’integrazione, che permette di valutare insufficiente una normalità improvvisata, senza risorse specifiche, in virtù della quale, stando con gli altri, l’alunno disabile si integri. Il concetto di Speciale Normalità rappresenta una condizione “mista”, complessa, di normalità e di specialità. Esse coesistono, si influenzano reciprocamente e l’una si trasforma nell’altra, arricchendola.
Ianes, fautore di questa teoria, afferma infatti che “la normalità del bisogno di educazione e formazione è uguale a quello di tutti gli altri alunni […] poiché ciascuno ha bisogno di uno sviluppo e di una funzionalità il più possibile normale e il più possibile rispondente alle normali richieste dei normali luoghi di vita. In questa essenziale normalità troviamo però la specialità, la differenza e la peculiarità, anche estrema, di alcune caratteristiche, che riguardano la persona (nelle sue condizioni di salute), la sua partecipazione sociale e i fattori contestuali che la mediano, facilitandola o ostacolandola.”
Nelle situazioni più speciali troviamo dunque molta normalità, o meglio prima di tutto incontriamo la normalità, ed è questo senso di forza che ha fatto cancellare le scuole speciali e tutte le altre situazioni segreganti.
Troviamo anche la Speciale Normalità nella crescente eterogeneità delle classi, crescente sia in termini di reale presenza di alunni con speciali caratteristiche (si pensi soltanto al rapidissimo incremento degli allievi nella scuola superiore) sia in termini di sempre maggiore capacità e volontà da parte dei docenti di comprendere le differenze e le individualità, per tentare di rispondere in modo più individualizzato.
Troviamo la Speciale Normalità in quel crescente numero di alunni “normali” che però presentano bisogni educativi speciali, che vanno affrontati adeguatamente, come disturbi dell’apprendimento, deficit di autostima o di motivazione.
Troviamo anche la Speciale Normalità nella maggior consapevolezza delle normalissime differenze individuali, delle “specialità” e singolarità degli allievi, che chiede differenziazioni nella didattica. Dunque vediamo la normalità sempre più sfaccettata e ricca di elementi e caratteristiche di specialità: anche nell’alunno più apparentemente normale si trovano notevoli differenze, che vanno conosciute e alla quale va data la possibilità di espressione e valorizzazione.
PEDAGOGIA SPECIALE
Questo tipo di pedagogia è in grado di cogliere la multidimensionalità, di pensare considerando la singolarità, la località, la temporalità e di non dimenticare mai le totalità integratrici.
La pedagogia speciale, come pedagogia della complessità e della diversità finalizzata alla “riduzione dell’handicap”, richiede conoscenze in molteplici settori del sapere, non escluse le pratiche legate alla quotidianità. Si tratta di una scienza i cui contorni non sono definiti una volta per tutte, in quanto vengono rielaborati nell’incessante ricerca di possibili soluzioni, dove la potenziata capacità di interpretare le situazioni di deficit e di handicap rappresenta il principio basilare della prospettiva dell’integrazione. Saper leggere le diversità significa, infatti, individuare le possibilità e le risorse per ricondurle a comuni territori di appartenenza.
Il raccontarsi, come capacità di accettare la propria identità nel confronto necessario con gli altri, presuppone sempre comunque un riconoscimento, una narrazione elaborata in funzione di un destinatario, frutto di relazioni educative basate sulla reciprocità, che aiutano il soggetto “diverso” a cogliere il valore del suo “esserci” nel mondo (per dirla con Heidegger).
Questo tipo di pedagogia è la capacità di far dialogare memoria e futuro del soggetto diverso, al fine di riconoscerne autentico protagonista del suo percorso di umana autorealizzazione. Si tratta di adottare una pedagogia della diversità promozionale di ricerca e di scoperta, rispettosa della complessità dei problemi esistenti, in grado di attivare strategie di intervento educativo-didattico, capace di bandire ogni stagnante paideia educativa, mediante l’utilizzazione di modelli di intervento che esaltano il valore dell’autonomia personale. La diversità va dunque interpretata come categoria storico-esistenziale valorizzante la vita di tutti gli esseri umani.
La principale finalità consiste nella “riduzione dell’handicap”, ovvero nell’adeguata valorizzazione del potenziale di ciascun soggetto: migliorare la qualità della vita del disabile.
Le diversità del deficit e dell’handicap rappresentano lo specifico oggetto di indagine della pedagogia speciale. La cura educativa non è sanitaria, ma si risolve in un sistema in fieri di regole comunicative, sociali, relazionali in grado di permettere a ciascuno di divenire ciò che può, di formarsi.
È una pedagogia del “prendersi cura” per riprendere ancora l’insegnamento di Heidegger che distingue l’ ”aver cura” dal “prendersi cura”: si fonda sulla capacità di collegare, nell’incontro educativo, individui diversi, con la loro particolare storia, generando nuove trame di significato esistenziale, in modo intenzionale e soprattutto mantenendo viva la consapevolezza della contestualità della richiesta d’aiuto o di cura.
Bisogna innanzitutto stabilire che l’essere umano è sostanzialmente soggetto e sede vivente di valori, i quali non possono essere considerati strumentali neppure per un altro essere umano. L’uomo è persona, vale a dire valore in sé e per sé, portatore di valori in qualsiasi età e in qualsiasi stato psicofisico.
Il concetto di “persona” fa riferimento ad una realtà senza connotare tratti fisici o corporei, mentre il termine “individuo” fa riferimento a specifiche caratteristiche fisiche. Si può perciò dire che il concetto di persona sia comprensivo del concetto di individuo. Jacques Maritain (autore di “Umanesimo Integrale”) scrive a tal proposito: “l’uomo è sì un animale ed un individuo, ma non come gli altri. L’uomo è un individuo che si guida da sé mediante l’intelligenza e la volontà; esiste non soltanto fisicamente, c’è in lui un esistere più ricco ed elevato; una sopraesistenza individuale nella conoscenza e nell’amore. E così, in qualche modo, un tutto e non soltanto una parte, un universo a sé, un microcosmo in cui il grande universo può, tutt’intero, essere contenuto per mezzo della conoscenza; mediante l’amore può darsi liberamente ad altri esseri che sono per lui come altri se stesso, relazione questa di cui non è possibile trovare l’equivalente in tutto l’universo fisico”.
Etimologicamente “differenza” deriva da disferre, che significa “portare da una parte all’altra”, “portare oltre”. Proprio per la sua differenza, ogni persona deve poter realizzarsi ed espandersi in tutta la sua originale pienezza, affermandosi come “differente” non solo dagli altri ma anche da se stessa, dei propri limiti, dal proprio vissuto, dal proprio ambiente. Al fine di non deteriorarsi nel conformismo e nella ripetizione, deve coltivare le proprie doti, fare tesoro delle proprie esperienze, costruire rapporti interpersonali arricchenti.
Il concetto di “diversità” da disvertere, cioè “volgere in opposta direzione”, accentua quello di differenza. Esso richiama l’idea di dissomiglianza, di discostamento da una norma, da ciò che è più comune. La diversità pertanto richiede riconoscimento e rispetto, piuttosto che ambigue forme di aiuto e di sostegno, che più o meno consapevolmente tendono all’assimilazione.
Definire “diverso” lo straniero, l’anormale, è ricorrere ad una categorizzazione generica per indicare una particolare diversità etnica, culturale, fisica, facendo così torto alla sua natura unica ed irripetibile. Non possiamo quindi far altro che esaltare la magnifica diversità dei simili.
E’ importante non porre l’accento su ciò che risulta impossibile, ma accogliere il soggetto così com’è; perché questo avvenga appare indispensabile che ognuno, venendo al mondo, abbia qualcuno che si prenda cura di lui, con cui costruire relazioni privilegiate e che lo aiuti nella scoperta dell’identità individuale. L’intelligenza rende possibile la costruzione di categorie e classificazioni, ma anche il loro superamento. Accoglienza significa considerare l’individuo come persona che deve essere salvaguardata nella dignità, che ha bisogni propri, primari e secondari, derivanti dalla storia soggettiva.
I limiti creano rifiuto, dolore, enorme frustrazione, grande fatica da parte dei genitori di un figlio disabile. Ciò vale, anche se in maniera diversa, se un figlio sano diventa disabile, poiché ha nuovi limiti. E’ più facile aiutare il disabile, sia da parte dei genitori sia degli operatori, se c’è una corretta conoscenza dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
Ci sono aspetti della persona che è essenziale considerare: i sentimenti, gli stati d’animo, i valori e le regole individuali. Chi è diversamente abile e ha bisogno d’aiuto e di cura, deve essere rispettato anche nel proprio mondo interiore, nell’universo di riferimento che gli appartiene.
Il lavoro con i disabili porta a contatto con il dolore e il limite, è naturale averne paura, ma è necessario avere consapevolezza di sé e conoscere con precisione e profondità la situazione dell’altro per impostare un’adeguata relazione di aiuto. Offrire un aiuto può essere anche un’integrazione: aggiunge ciò che manca, armonizza, completa, trova le modalità attraverso le quali ognuno possa avere un ruolo, sia pur piccolo, possa interagire e riesca a sentirsi utile a far qualcosa. Il presupposto di tutto ciò è il riconoscimento dell’essere.
E’ attraverso l’espressione e il confronto che ogni singolo individuo costruisce la personalità, ma se la comunicazione viene negata, se non c’è la possibilità di conoscere il diverso, com’è possibile crescere? Bisogna guardarsi allo specchio per sapere come siamo e gli occhi di chi ci sta di fronte sono davvero i migliori specchi. Attraverso il dialogo e il confronto è possibile che ognuno scopra le proprie capacità e questo vale per la persona diversamente abile come per chi l’aiuta; se un rapporto è autentico nel suo giocarsi, ognuna delle parti potrà anche individuare ciò che deve superare dentro di sé.
Uno dei diritti e dei bisogni che vanno riconosciuti al disabile è quello di poter conoscere sempre più il mondo che lo circonda, di potersi sperimentare, per quanto più possibile, in nuove realtà. Occorre riconoscere alle persone disabili il diritto all’esperienza, a occasioni che possono anche farle soffrire o renderle più consapevoli delle difficoltà. Così imparerà ad affrontare gli ostacoli, a sopportare le frustrazioni, a sentirsi a volte rifiutato. E’ importante che il diversamente abile possa immaginarsi in una storia, in un tempo, possa cercare il proprio ruolo; questo è l’unico modo corretto per farlo crescere, ma deve essere l’altro a cominciare a sognare e progettare “su di lui”.
Un’altra necessità che la nostra cultura riconosce poco alle persone diversamente abili è quella di rivestire un ruolo attivo. Proprio perché sono messe al primo posto le difficoltà e non le capacità, le azioni lavorative che il disabile deve svolgere risultano sterili e ripetitive, non hanno un valore in sé, né uno sbocco produttivo. Bisognerebbe garantire loro alcune soluzioni perché i timori del futuro, della solitudine, della necessità di aiuto, possano essere neutralizzati; così sarebbe più facile immaginare costruire un avvenire. Anche il diversamente abile ha il diritto di diventare adulto e di costruire la propria storia.
BIBLIOGRAFIA
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, 2000, Oscar Mondadori
Quintiliano: http//www.dubladidattica.it/quintiliano.html (10/4/ 2009)
Convenzione sui diritti del fanciullo: http//www.informahandicap.it (10/4/2009)
Disabilità: da Wikipedia, l’Enciclopedia libera
Integrazione e Pedagogia speciale: http//www.bussolascuola.it (10/4/2009)
(a cura di D.Antonello e F. Tessaro)
http//www.laboratorioculturale.blogspot.com (10/4/2009)
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