Margherita Carpinteri
Introduzione
Il mito di Medea si è fissato nella storia della letteratura e della cultura occidentale sulla base della caratterizzazione conferitale dalla tragedia di Euripide (431 a.C.).
Tuttavia pochi sanno che la sua presenza è attestata fin dai primordi della letteratura greca;
infatti il mito di Medea è legato alla saga degli Argonauti e quindi alla conquista del mare da parte dell’uomo (uno dei miti più cari al popolo greco) nonché del mitico vello d’oro, avventura nella quale la nostra protagonista aiuta Giasone a portare a termine l’impresa attraverso la propria μητις, tanto da apparire ella stessa come depositaria di un sapere divino, necessario all’ uomo per dominare gli elementi della natura.
Medea, figlia dell’oceanina Idia (ma talvolta le si attribuisce come madre la dea Ecate, che, secondo la tradizione seguita da Diodoro Siculo, era la signora di tutte le maghe ), del re della Colchide, Eeta, e perciò nipote del Sole , viene cantata come divinità poiché porta agli uomini aiuto e sostegno nel compiere l’impresa di conquista del mare, tanto da essere quasi accostata a ciò che rappresenta Prometeo nell’appropriazione di un altro elemento naturale: il fuoco. Entrambi i personaggi sono però da accostare inevitabilmente anche al concetto di υβρις, il quale nella visione greca si accompagna indissolubilmente a tali conquiste. Nella sapienza profetica che Medea esprime è presente una certa epifania, simbolo della sua divinità.
In questo modo il suo aggregarsi alla spedizione degli Argonauti non costituisce solo, come avverrà per Apollonio Rodio, la fuga dalla propria patria da parte di una donna innamorata che decide di seguire il proprio uomo condividendone i rischi e il destino futuro, ma esprime anche l’intervento dell’elemento divino all’impresa più ardita dell’uomo, quella della conquista del mare.
Troviamo riferimenti che testimoniano la già antichissima diffusione del mito di Medea nei poemi Omerici, nei quali Medea viene considerata una dea-maga affine a Circe, con la quale, in quanto discendente del Sole, è imparentata; Medea si configura come depositaria di sapienza divina, come peraltro ci suggerisce anche l’etimologia del suo nome ( Medea → da μεδομαι “ colei che escogita”, ovvero colei che sa trovare rimedi).
MEDEA IN EURIPIDE (Atene di Pericle)
Di Euripide, nato a Salamina intorno al 480 a.C., e morto in Macedonia alla corte di Archelao nel 406 a.C., si conoscono novantadue drammi dei quali però sopravvivono solo diciotto tragedie e un dramma satiresco. Tra le diciotto tragedie è presente “Medea”, in cinque atti, composta nel 431 a.C. insieme con il Filottete, il Ditti e i Satiri mietitori. Questa tragedia rappresenta, insieme all’”Ippolito” del 428, un capolavoro del teatro mondiale, mai nessun’altra tragedia ha, infatti, influito tanto sulla letteratura, l’arte figurativa e la musica. Al centro dell’azione vi è lo sviluppo del personaggio, una figura femminile che può essere considerata una sorta di contraltare alla dolce Alcesti, giacché Medea è rappresentata come una donna ribelle alle leggi della famiglia, perturbatrice e portatrice di sciagure.
La tragedia è costruita intorno alla vendetta di Medea, che, eliminata la rivale, in un parossismo di ferocia uccide anche i propri figli per infliggere a Giasone il dolore e l’offesa più atroci. Medea è una donna eccessiva, passionale, mossa da istinti elementari di violenza e collera, è capace di manifestare una vastissima gamma di stati d’animo, ma è anche coraggiosa, intransigente e determinata. Significativa è anche la sua adesione al codice eroico tradizionale, il quale prescriveva di fare del bene agli amici e del male ai nemici; la spia di questa adesione la ritroviamo nel lessico stesso utilizzato dal poeta. Ma Medea è anche una donna ricca di risorse intellettuali alle quali viene dato un rilievo particolare, specialmente in due momenti della vicenda: il colloquio con Creonte nel primo episodio e l’incontro con Egeo nel terzo, ma mentre il primo ha paura di Medea e la accusa di stoltezza, tanto che lo stesso Giasone ravvisa nelle stolte parole di lei la ragione prima dell’esilio impostole dal re, il secondo ne apprezza e rispetta le qualità, e la pone al di sopra del livello medio degli uomini. Ma comunque, nessun personaggio mette seriamente in dubbio le qualità di Medea; nello stesso tempo nessuno la comprende pienamente, e questo perché tutti sono al di sotto del livello della protagonista. Un’altra caratteristica fondamentale, che Euripide riprende dai poemi omerici, è la capacità di persuasione, che, come Odisseo, possiede Medea: nell’Atene del tempo in campo politico, giudiziario, in ambito sofistico e nella tragedia, vi era grande interesse per la persuasione esercitata attraverso la parola. Nel prologo la nutrice ci informa che Medea persuase le figlie di Pelia ad uccidere il padre. Nella grande rhesis dei vv. 214-266 Medea si procura il consenso delle donne corinzie, le donne del coro, facendo in modo che anche loro sentano come propria la sua causa, che finiscano col vedere in lei una di loro. Al termine del discorso di Medea le donne del coro sono dalla sua parte; Medea è riuscita a persuadere le donne corinzie, vale a dire quelle donne che nella parodo avevano chiesto alla nutrice di poter parlare con Medea perché speravano di persuaderla a mutare atteggiamento, a porre un limite alla sua collera. La prova più significativa della sua capacità di persuasione si ha nel secondo colloquio con Giasone, nel quarto episodio. Essendo donna, però, Medea dovrà mettere in atto la sua vendetta rinunciando all’uso delle armi, ricorrendo soltanto all’inganno.
La tragedia si apre a seguito di un breve colloquio tra la nutrice e il pedagogo, al v. 96. Qui troviamo la protagonista che maledice il suo destino urlando frasi spezzate in una monodia recitata da fuori scena; Medea comparirà fisicamente, infatti, soltanto a partire dal v. 214.
Con il procedere dell’azione la vediamo analizzare, davanti al coro, le varie ragioni della sua sofferenza, affrontare lo sposo, simulare sottomissione per ingannare i nemici e ripercorrere in un monologo disperato le ragioni del suo agire, divisa tra il desiderio di vendetta e l’affetto materno; infine la vediamo, nuovamente libera e selvaggia, assaporare la sua vendetta sopra un carro alato, davanti ad un Giasone affranto e ormai impotente. Euripide inaugura così un nuovo genere tragico in cui il personaggio è mostrato in bilico tra irrazionalità e ragione, diviso tra opposte pulsioni; Medea, infatti, sa analizzare lucidamente i suoi stati d’animo, ma non può impedire a se stessa di rimanere vittima delle forze oscure che si agitano dentro di lei. Così in Euripide la personalità umana appare contemporaneamente una e molteplice; Euripide, con una Medea allo stesso tempo donna gelosa, folle assassina, infanticida e vittima di se stessa, rivela per la prima volta, quanto sia complessa e contraddittoria l’identità di una persona. Il personaggio della protagonista è straordinario nella sua mescolanza di sentimenti, ma sicuramente ci troviamo di fronte ad un’eroina negativa, che suscita compassione, e insieme sgomento e orrore. La personalità di questa figura femminile, i suoi filtri, la sua astuzia crudele e la sua natura di maga e di straniera, così lontana dalla psicologia ateniese e dai consueti modelli femminili, deve aver affascinato la mente di Euripide, infatti, queste caratteristiche sono presenti in altre due tragedie, perdute, dell’autore (Pleiadi e Egeo). In realtà però, non bisogna vedere nella Medea solo una storia personale di gelosia e di vendetta; dietro alla vicenda dell’eroina si nasconde una critica al modello tradizionale della famiglia. Infatti Giasone - che compare sulla scena stupito della gelosia di Medea e affermando che l’unica cosa importante è dare figli legittimi alla città, seriamente convinto che Medea non possa chiedere niente di più che essere strappata alla barbarie del suo mondo marginale - non è visto dal pubblico come un fellone, al contrario rappresentava le idee del cittadino medio ateniese, e dal punto di vista del diritto cittadino aveva ragione, in quanto le leggi ateniesi escludevano dalla cittadinanza i figli di un coniuge straniero, e chi non dava figli alla città era biasimato socialmente. Senonchè Medea viene da un altro mondo: un mondo barbaro governato da altre leggi. Tra Giasone e Medea non vi è, quindi, soltanto un conflitto fra un uomo infedele e una donna gelosa, ma vi è anche uno scontro antropologico fra diverse culture e mentalità, tra la cultura barbara e quella greca, tra la cultura maschile, della famiglia patriarcale e quella femminile delle passioni, tra la legge della città e quella della natura, che opera nell’ emotività di Medea. È appunto questa distanza antropologica a rendere impossibile la comprensione fra i due protagonisti e il risultato è una profusione di ferocia e di violenza da entrambe le parti: quella fredda e legalitaria di Giasone e quella selvaggia di Medea. La tragedia si chiude con una frattura totale: dietro tutte queste stragi non c’è alcun progetto divino, alcuna giustizia che interviene a ripristinare un equilibrio; tutti, in qualche modo, hanno perduto qualcosa, e in particolare sono stati immolati i più innocenti e i più deboli (i figli di Medea e la principessa di Corinto). Anche Giasone però non appare certo come un personaggio esemplare e viene presentato, quindi, con tono minore rispetto alla protagonista; la Medea vive così soprattutto della sua protagonista.
Euripide, in una fase ormai prossima alla decadenza politica della πολις ateniese, cercò di rileggere il mito umanizzandolo, lasciando che gli eroi scendessero dal loro piedistallo per consentire al pubblico di cogliere l’incommensurabile impeto di impulsi irrazionali e inspiegabili dell’animo umano. Euripide, però, per questo fu oggetto di critiche e accuse di incoerenza, già da parte dei suoi contemporanei; con Euripide si assiste ad una completa ridefinizione dei concetti-chiave di “eroe”, “colpa”, “responsabilità” e “legge”. È opinione diffusa, inoltre, che sia stato lo stesso Euripide ad escogitare le trovate del peplo incendiario regalato da Medea a Glauce (o Creusa), futura moglie di Giasone, e dell’abbraccio mortale che decretò anche la morte di Creonte, padre di Glauce; ma soprattutto appare certo che egli sia stato il primo ad attribuire l’infanticidio all’eroina, in quanto, nella precedente versione del mito, i bambini venivano lapidati dai Corinzi, quale punizione per aver recato i doni mortiferi alla principessa; Euripide, in questo modo, conferisce alla tragedia una straordinaria potenza drammatica correlata con lo splendido lavoro di scavo psicologico compiuto attorno alla donna. Infine possiamo dire che Euripide ha esercitato la propria originalità su svariati punti; anzitutto egli ha riproposto l’intera saga degli Argonauti in una rivisitazione che mette in luce le capacità di Medea e la codardia di Giasone, intravedendo in questo mito una connotazione altamente drammatica e scegliendo un personaggio femminile che, sotto molti aspetti, è presentato in modo rivoluzionario rispetto alla tradizione e posto al centro del dramma. Infatti, Medea, nella tragedia euripidea, non è una maga barbara, bensì l’archetipo della donna ateniese che mette in discussione certe consuetudini non scritte riguardo alla funzione e al ruolo della donna nella società di allora, incarnando, così, uno dei più evidenti anacronismi che caratterizzano l’opera. Si tratta di una figura fortemente umanizzata dall’autore, nell’intenzione di far risaltare le sue contraddizioni e i suoi impulsi irrefrenabili, in modo da creare uno scontro drammatico non più esterno al personaggio ma che nasce e si sviluppa nell’animo stesso della donna. Ella, però, è anche sola, perché isolata proprio dalla sua unicità e dalla sua stessa grandezza; vive dunque la sua tragedia in completa solitudine: nessuno la comprende tranne Egeo. Di conseguenza essendo Medea protagonista unica, Euripide non poteva fare altro che svalutare le altre figure, che rientrano comunque a pieno titolo nel mito: Giasone è una sorta di eroe dimezzato e privato del proprio coraggio, tanto da apparire quasi patetico in alcuni suoi atteggiamenti; Creonte si rivela, in qualche modo, incapace e cieco di fronte alla donna; Egeo risulta manipolato dalla sorprendente intelligenza della protagonista. Euripide attribuisce a Medea un carattere di terrificante grandiosità, è lei, infatti, che domina sempre la scena; i vv.1-212 preparano la sua apparizione sulla scena e tutti gli eventi portano ad un unico personaggio, Medea, la cui compiutezza si realizza nella compiutezza della scena, ella, infatti, è tale da riempire di sé tutto il mondo circostante, creando uno spazio scenico totale, che sembra esserne il riflesso. Euripide, inoltre, fa in modo che la parodo completi la linea drammatica e il contenuto del prologo. Medea, anche se ancora fisicamente fuori scena, appare già nella sua dimensione tragica di creatura tormentata e terribilmente animata da una disumana sete di vendetta. Nella tragedia euripidea ha una valenza molto importante anche il fattore temporale; infatti, la prologrhesis della nutrice e la rhesis di Medea subito dopo, risultano unire presente e passato. All’evocazione dei fatti accaduti, si accompagna lo stato presente di Medea; ma soprattutto, Medea è una donna che non si può comprendere al suo primo apparire, che ha bisogno, per essere compresa, di essere anche raccontata da chi ha sempre vissuto al suo fianco, come, ad esempio, la nutrice, la quale ce ne può riferire la storia con le parole. Infine al modello odissiaco/tradizionale, Euripide associa anche quello magico, come è già stato detto in precedenza. Infatti la magia diventa parte fondamentale della ρεσις di Medea, la quale si serve magistralmente della sua magia, raggiungendo pienamente il suo obiettivo; di questa sua dote, Medea, inoltre, mostra di esserne pienamente cosciente. Ella è audace ed insieme orgogliosa della propria origine, ed è dunque, portata a ribellarsi agli oltraggi subiti da parte dei nemici. C’è da considerare anche il fatto che Medea è una protagonista donna ; infatti il teatro greco, come tutti sanno, è prettamente maschile, sia per la produzione, sia per la fruizione. Se si considera la condizione della donna nella Grecia del V secolo, non si può non concludere che solo ad una donna poteva capitare quel che è capitato a Medea: il ripudio del coniuge era, infatti, un privilegio solo dell’uomo; inoltre ella aveva commesso crimini indicibili con l’unico scopo di seguire l’uomo di cui era innamorata, finalizzando in quest’ultimo l’intera propria esistenza. La donna in Medea non è, né poteva esserlo, un simbolo; rispecchia le strutture e il tessuto culturale della società ateniese del V secolo. Solo così Medea donna poteva essere compresa dagli spettatori, e solo per questa via a noi è possibile comprenderla. La sua natura di donna, però, non scompare nemmeno quando i tratti eroici del personaggio appaiono predominanti: ulteriore dimostrazione dell’innovazione apportata da un Euripide che sa sondare l’universo femminile. Medea viene umiliata e tradita come donna, e come donna, ma con la determinazione di un eroe, reagisce nell’ambito della sfera che le è propria; Medea si vendicherà, infatti, come donna. Purtroppo, però, proprio la sua condizione di donna fa sì che la coesistenza dei tratti eroici e dei tratti femminili risulti estremamente conflittuale, tragica: lo si vive nelle strazianti parole che ella rivolge ai figli nel monologo d’addio. Così Medea, donna nata per la vita, si piega alla distruzione e alla morte.
Medea in Pier Paolo Pasolini
Il film Medea, ambientato per buona parte in Turchia, a Pisa e in Siria, e nella dimensione temporale del mito, fu scritto da Pier Paolo Pasolini e prodotto da Franco Rossellini nel 1969-70 ed ebbe come protagonisti Maria Callas, nel ruolo do Medea, Giuseppe Gentile nel ruolo di Giasone, Massimo Girotti nel ruolo di Creonte e Laurent Terzieff nel ruolo dai due Centauri. All’interno dell’opera si intrecciano aspetti civili, psicologici, classici e popolareschi, dando luogo a una stratificazione e a una commistione di molteplici chiavi di lettura; infatti, Medea pur essendo classificata tra i lavori pasoliniani di filone classico, si presta ad interpretazioni che vanno da quella psicologica a quella sociale e antropologica. Come disse lo stesso Pasolini, il suo intento fu quello di mostrare, attraverso l’amore tra Medea e Giasone, il contrasto esistente tra il mondo sottoproletario, arcaico e religioso (com’era quello di Medea), e quello borghese, moderno e laico (di Giasone). Pasolini si spinge oltre l’archetipo euripideo sotto una duplice ottica. In primo luogo,
egli avverte, sul piano della ricostruzione temporale della narrazione, il bisogno di non fermarsi allo scenario ultimo della tragedia, cioè quello di Medea a Corinto, per cui risale alle origini di essa, anche se, prende le mosse dall’infanzia e dall’educazione di Giasone. In secondo luogo, Pasolini risale al di là di Euripide soprattutto nella ricostruzione delle radici antropologiche della vicenda mitica, rivolgendo l’attenzione all’elemento magico-rituale e alla visione sacra della realtà cui questo si riconnette, come attestano particolarmente, nella ricostruzione dell’antefatto in Colchide, l’ampio spazio dedicato al rituale di un sacrificio umano e la presentazione della figura di Medea come sacerdotessa, custode di una conoscenza mistica. Medea inoltre, abbandonata la sua terra tenta invano di riappropriarsi di quella dimensione sacra della realtà che ella ha ormai perduto; solo l’unione con Giasone, che infine ella accetta di seguire nella tenda, sembra restituire improvvisamente un significato alla sua vita: nell’amore trova di colpo un sostituto della religiosità perduta. Così, il mondo, il futuro, il bene, il significato delle cose, si ricostituiscono di colpo davanti a lei. L’ingresso di Giasone nella vita di Medea e la fuga dalla Colchide rappresentano l’evento traumatico dello sradicamento della regina barbara dalla sua cultura d’origine magico-sacrale. Il Centauro Chirone, che in Corinto ricompare a Giasone sotto la duplice forma mitica e realistica, definisce il dramma della protagonista catastrofe spirituale, disorientamento di donna antica in un mondo che non crede in nulla di ciò in cui lei ha sempre creduto. Quando poi sembra venire a mancare anche il rapporto con Giasone, apparso in qualche modo sostitutivo delle precedenti certezze nel traumatico smarrimento del senso della realtà e del proprio essere, allora si prepara alla catastrofe. Pasolini, pur rifacendosi in gran parte ad Euripide, applica delle sostanziali differenze: Medea non è più la maga regale, ma una donna dimessa e disperata; il dono della veste, non cela alcun terribile incantesimo, in quanto è Glauce stessa che, vestendosi e mirandosi allo specchio, soccombe al peso del rimorso, finché, dopo essersi slanciata fuori dalla reggia, in preda a una sorta di delirio, si lascia precipitare dall’alto, seguita dal padre, Creonte. La morte di Glauce, inoltre viene riproposta due volte nel film, la prima come sogno di Medea, la seconda come realtà; Pasolini fa in modo che il destino riaccada due volte, ma la vera e propria morte di Glauce la fa avvenire per ragioni psicologiche, segno che nel mondo moderno non c’è spazio per le arti magiche arcaiche ma solo per la ragione. Pasolini, introduce anche la tematica della frustrazione e dell’esclusione di Medea dal mondo di Giasone con una scena che ritrae una danza tra Giasone e i ragazzi di Corinto, vista con gli occhi di una Medea in lacrime. Infine, l’uccisione dei figli avviene come una sorta di rito sacrificale, preceduto dal bagno lustrale e concluso dal fuoco purificatore. Ben diversa dall’immagine euripidea della maga ferocemente trionfante che si allontana sul carro del Sole, appare quella del fuoco in cui arde la casa con le giovani salme, così da sottrarle all’estrema profanazione del mondo “civile”; nella scena finale Medea parla dall’alto ad un Giasone disperato, ma alla tardiva disperazione dello sposo, si oppone la gioia di una Medea gratificata finalmente dalla vendetta. L’ultima battuta è ovviamente di Medea: <<…niente è più possibile ormai.>>. A differenza che in Euripide, manca in Pasolini ogni prospettiva futura anche per Medea: se nel modello tragico, la maga trovava rifugio presso Egeo, la figura del re ateniese invece viene soppressa dal regista italiano, come anche da tutte le riscritture moderne. La vicenda si conclude dunque all’insegna di un pessimismo sospeso e privo di sbocco.
Alla sua comparsa, nel 1970, il film sollevò reazioni negative, specie presso quei critici condizionati dall’idea che l’arte doveva essere funzionale all’impegno civile; poco apprezzata risultò addirittura l’interpretazione della Callas: la cantante lirica apparve poco espressiva e inesperta della cinepresa; altri critici meno impietosi e più obiettivi ne apprezzarono al contrario l’interpretazione, ma anche la professionalità. Pasolini, però, più che la professionalità, cercava negli attori una forza esistenziale, egli infatti tentò di dare profondità psicologica dei personaggi.
Nessun commento:
Posta un commento